Milano

“Mi sento me stesso solo in abiti femminili”

Nessun esibizionismo o ricerca di popolarità, Stefano Ferri chiede solo di poter essere ciò che sente senza ipocrisie o finzioni

 “Mi sento me stesso solo in abiti femminili”

Di: Sabrina Cau


Giornalista, padre e marito sempre presente, Stefano Ferri è un Pr e consulente di eventi, nel 2004 riceve il Premio Hilton per il giornalismo e nel 2006 il Premio for Events per la stampa di settore. É un milanese di successo diventato crossdresser dopo un lungo percorso psicologico in cui i momenti bui si sono susseguiti ai pregiudizi e alle difficoltà di comprendere fino in fondo ciò che stava accadendo dentro di lui, ma alla fine ha portato al raggiungimento di una pace interiore che gli ha permesso di mettere ordine nella sua vita e di entrare in contatto con la sua stessa anima.

Ama indossare abiti femminili, porta  i tacchi a spillo e ha le mani curate con lo smalto nelle unghie, ma Stefano è  un uomo come tanti con le gioie e le preoccupazioni che fanno parte della vita di tutti noi, vestirsi da “donna” nasce dalla profonda esigenza di essere totalmente se stesso. “Donna” non mi hanno visto mai, perché uomo sono e rimango, esattamente come una donna resta tale anche coi pantaloni”.

Il crossdressing viene praticato da sempre, tuttavia ancora oggi è avvertito a livello sociale e culturale, con un’impronta negativa. Il diritto di essere se stessi sempre e comunque non dovrebbe mai essere catalogato come “negativo” o “sbagliato”, sentire addosso il peso del pregiudizio, percepire gli occhi intrusivi e giudicanti degli altri piantati sulla schiena è invece inaccettabile.

Stefano si è raccontato ai microfoni di Sardegna Live senza veli dimostrando la sua grande sensibilità intellettuale e morale e la completa estraneità all’ipocrisia.

Ciao Stefano, ci spieghi cos’è un crossdresser?

“Crossdresser è colui o colei che indossa abiti convenzionalmente riservati al sesso opposto. Sottolineo l’avverbio perché non è nulla più di una convenzione. Oggi nessuno definirebbe “crossdresser” una donna in giacca e pantalone, per il semplice motivo che tutte si vestono così. Eppure, all’inizio fu estremamente difficile anche per loro. Le prime donne che a fine Ottocento osarono rubare capi dal guardaroba maschile venivano arrestate, processate e detenute per indecenza e oltraggio alla morale, lo stesso che oggi capiterebbe agli uomini in gonna e tacchi a spillo nei paesi mussulmani. È la numerosità che determina la percezione di normalità, non altro”.

C’è stato un momento particolare in cui hai deciso di indossare abiti femminili?

“In realtà si trattò di un processo lunghissimo e doloroso. Ricordo perfettamente quando avvertii la prima attrazione verso questi abiti: avevo nove anni. Non solo ero un bambino, privo della forza interiore di un adulto e pertanto non in grado di affrontare lo stigma sociale, ma pure vivevo in una società assai meno incline ad accogliere le cosiddette diversità rispetto alla nostra. Basti pensare che sino all’anno prima (1974) il crossdressing maschile in Italia era reato. Un maschio che avesse avuto l’ardire di uscire come oggi mi vesto io sarebbe stato arrestato e incarcerato dalla prima pattuglia. Non che lo sapessi, ovvio, però avvertivo a livello inconscio l’inopportunità di dar seguito ai miei desideri, per cui, semplicemente, li rimossi”.

E cosa successe dopo?

“Rimuovere non aiuta affatto, anzi approfondisce il problema. Nel mio caso addirittura lo esplose, perché mi ridusse in un vicolo cieco di invidia verso tutte le donne, “colpevoli”, ai miei occhi, di potersi vestire come avrei tanto voluto fare io. Naturalmente non ne ero consapevole, chi invidia non sa mai di invidiare, trasferisce su altri piani la motivazione del suo odio pur di non figurarsi in inferiorità. Lo dico con dolore, non ne vado certo orgoglioso, ma voglio che si sappia cosa significa non risolversi. Morale: trascorsi vent’anni, sino ai miei 29, rinchiuso in me stesso, senza amicizie vere, senza punti di riferimento, senza progetti né desideri, pur di appagare una società che mi pretendeva in giacca, cravatta e pantalone. Arrivato alla soglia dei 30, disoccupato e tristemente single (dico “tristemente” perché la mia vocazione non era quella), iniziai a lasciarmi andare. Non per un calcolo bensì in obbedienza al mio antico impulso divenuto irrefrenabile: ero adulto, una qualche forza bene o male l’avevo, e la società era parecchio cambiata. Sulle passerelle sfilavano uomini truccati, con camicie d’organza, infradito di vernice. Presi il “la” in questo modo, effeminando il mio guardaroba maschile, e dopo sette anni feci il salto con un kilt che di kilt non aveva nulla perché non era a quadretti ma tutto nero, dunque una vera gonna elegante, quasi da sera. Il resto venne da sé”.

Hai una moglie e una figlia adolescente, quale reazione hanno avuto la prima volta che ti hanno visto donna?

“ ‘Donna’ non mi hanno visto mai, perché uomo sono e rimango, esattamente come una donna resta tale anche coi pantaloni. Mia figlia è nata che ero già crossdresser al 100%, senza più nulla di maschile nel guardaroba. Così mi ha conosciuto, dunque questa è la mia normalità per lei. Con mia moglie è invece stato diversissimo, anche se la prima volta che mi vide in questi panni se ne uscì con una battuta: «Certo che tua mamma te le ha fatte belle le gambe eh?»”.

Una battuta che evidenzia l’intelligenza emotiva di tua moglie, nonché il suo amore per te, tuttavia non deve essere stato facile per la tua vita di coppia. Sei riuscito a trovare un equilibrio con lei?

“Sì, dopo dieci anni tremendi che non auguro a nessuno. Dieci anni che però col tempo ho rivalutato, perché, per quanto mi siano sembrati eterni, sono pur sempre molti meno dei ventisette che occorsero a me (da quando avevo nove anni a quando, a trentasei compiuti, indossai il mio primo abito femminile con tacchi a spillo). Trovo meraviglioso che lei, persona a me vicinissima ma pur sempre “altra”, abbia avuto bisogno di meno della metà del tempo che ho impiegato ad accettarmi io. Oggi, col senno di poi, considero quei due lustri alla stregua di una magnifica quanto sofferta dichiarazione d’amore”.

Sei l’autore di un libro dal titolo “Crossdresser. Stefano e Stefania, le due parti di me”. Chi è Stefano e chi è Stefania?

“Stefania è un’astrazione, una scorciatoia cognitiva. È evidente che non c’è nessuna Stefania, ci sono soltanto io, Stefano. Di contro va comunque detto che una parte femminile e una maschile la conserva ognuno di noi, mica soltanto io, e il mix di queste due parti – unico e irripetibile come il timbro della voce o le impronte digitali –determina carattere e inclinazioni sessuali. Il fatto che in un caso come il mio questo mix abbia dato luogo a conseguenze impattanti sul piano estetico non può e non deve essere causa di discriminazioni”.

Pensi che un giorno Stefania possa allontanare Stefano per sempre?

“No, alla mia verde età lo avrebbe già fatto”.

Di cosa hai paura?

“Ancora, qualche volta, mi prende l’ansia di subire trattamenti razzisti, anche se è difficile colpire un uomo sereno e orgoglioso di sé. Inoltre lo sbocciare della generazione gender-fluid, di cui fa parte anche mia figlia, mi rende molto ottimista sul futuro, sia pure a lungo termine”.

Quali i pregiudizi e i luoghi comuni che ti fanno più male?

“Mi ripugna l’idea che io, in quanto uomo, sia indecente in gonna e tacchi. Più che un pregiudizio, questo concetto racchiude una delle massime espressioni della stupidità umana. Rinnega migliaia di anni di storia, che hanno testimoniato uomini in tunica, minigonne e calzamaglie assai più spesso delle donne, giunte a questi capi solo da una manciata di decenni. Rinnega l’unisex dei tacchi, nel Settecento portati dai nobili di ogni rango perché appunto considerati simboli di nobiltà (non per caso fu la rivoluzione francese ad abrogarli, poi tornarono come simboli di femminilità – lo vedete che è tutta soltanto convenzione?). Rinnega anche il buon senso, laddove è madre natura a dirci che le gambe maschili possono essere – e spesso sono – esteticamente bellissime. Dice: ma hanno i peli. Rispondo: tutte le gambe sono pelose, anche quelle delle donne. È sufficiente depilarsele, come appunto le donne fanno”.

Come ti vedi fra 20 anni?

“Incrocio le dita (quel che conta è la salute e spero di averla sempre dalla mia): mi vedo dinamico 75enne capace di stare sui tacchi come nessuno – e nessuna! – della sua età. E m’immagino nonno di nipoti ancor più gender-fluid dei ragazzini di oggi, inclini a imitarmi a prescindere dal sesso biologico, liberi di sperimentare e decidere”.

Cosa diresti a chi vorrebbe fare la tua stessa scelta, ma ha paura di farla?

“Di essere se stesso sino in fondo senza paura. L’alternativa è lasciare che gli altri governino la sua vita, con quel che segue quanto a infelicità, rabbia e repressione”.

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