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Il dolore lacerante di una mamma, il senso di giustizia di una donna squarciata nell'anima. Le parole di Nicolina Giagheddu, madre di Emanuele Ragnedda, reo confesso dell'assassinio di Cinzia Pinna, sono una testimonianza di coraggio ma, soprattutto, di lucida consapevolezza. Non cerca alibi, Nicolina, né tantomeno perdono per il figlio, messo a nudo davanti al dolore da lui stesso generato: "Se lo ha fatto, merita l'inferno", le sue parole ai giornalisti che, con sorpresa, hanno visto arrivarla nella tenuta di famiglia nel giorno del sopralluogo che potrebbe far luce su alcune questioni irrisolte intorno alla vicenda. Ha trovato la forza nelle gambe, ma soprattutto nel cuore, per recarsi ieri a Conca Entosa, che fu terra felice del padre, e che il figlio ha trasformato in stazzo dell'orrore consumando il più atroce dei delitti. Poi si è esposta alle telecamere e, quindi, all'Italia intera, che ha assistito in religioso silenzio, davanti agli schermi, alla profonda presa di coscienza della donna.
Presagi di una vita sregolata
Non c'è perdono, né redenzione davanti a una così brutale violenza, anche se ti chiami Emanuele Ragnedda, anche se sei "mio figlio". Le avvisaglie, nelle ultime settimane, secondo la madre c'erano già, ma, certo, era difficile aspettarsi un epilogo così tetro. "Io li avevo aperti gli occhi, non sono stata ascoltata ma gli occhi, io, li avevo aperti", sono le sue parole ai microfoni de La vita in diretta, su Rai1. Quella del figlio, la notte fra l'11 e il 12 settembre, è solo la punta dell'iceberg di una vita fatta di eccessi e cattive condotte: "Tutti conoscono Emanuele, sanno quanto era sbruffone", commenta amareggiata la donna. "Ma - chiarisce subito - una cosa è essere sbruffoni, un'altra essere assassini".
La banalità del male
La vita è continuata per Emanuele, anche dopo aver irrimediabilmente macchiato la sua anima con l'assassinio di Cinzia, 33 anni di Castelsardo, freddata a Conca Entosa, un proiettile alla testa, e gettata fra i rovi, là dove è rimasta per quasi due settimane, fino al ritrovamento del corpo. Sorrisi, feste e cene fuori, il volto perfettamente camuffato del killer, come una maschera, nella quotidianità, mentre l'angoscia e il dolore attanagliavano i pensieri della famiglia della giovane vittima. Si era presentato persino al compleanno della madre, pochi giorni più tardi: "Era venuto solo a rovinare la festa a me", la considerazione, col senno del poi, di Nicolina Giagheddu.
"La banalità del male", con questa brillante definizione la filosofa e pensatrice tedesca Hannah Arendt coniò la rappresentazione di un concetto che, ancora oggi, sembra meglio di altri rappresentare l'atrocità "silenziosa" dei delitti quotidiani. Per la Arendt, il male non si presenta necessariamente con tratti di eccezionalità, con la violenza demoniaca o la crudeltà sadica che ci si potrebbe aspettare. Al contrario, esso può assumere una dimensione banale, quotidiana, radicata nella superficialità e nell’incapacità di pensare criticamente. Questo non vuol dire che il male sia insignificante, tollerabile, ma che la sua origine può essere ordinaria: il frutto della rinuncia al giudizio personale, dell’abitudine a ridurre le azioni a meri atti burocratici, della volontà di "non pensare". È proprio questa normalità disarmante, questa maschera di mediocrità e obbedienza (non solo ad altri, ma anche a sé stessi), a renderlo ancora più inquietante.
La condanna di un dolore eterno
Se per il figlio non esiste redenzione, non si sprecano le lacrime per chi adesso è condannato a vivere nel dolore: i genitori di Cinzia, morti insieme a lei quella notte, nella tenuta dei Ragnedda, ma costretti a portare il peso di un male così grande, entrato brutalmente nelle loro vite. Poche parole, ma cariche di significato, quelle di Nicolina, che con voce flebile e commiserevole rivolge un pensiero alla famiglia di lei: "Li amo, li amo tanto, e mi perdonino".