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Non si muore di HIV, ma di ignoranza e pregiudizio. Testimone: Elena di Cioccio

La storia della ex iena e conduttrice durante la trasmissione “Le iene” e nell’intervista su Vanity Fair

Non si muore di HIV, ma di ignoranza e pregiudizio. Testimone: Elena di Cioccio

Di: Enrico Bessolo


Una lineetta viola in più, tre lettere e la vita può cambiare per sempre: “HIV+”.

La medicina non è una scienza esatta, ma dai tempi di Ippocrate e di Galeno ha fatto grandissimi progressi. Due di essi si chiamano Cabotegravir e Rilpivirina, due farmaci antiretrovirali che da diversi anni permettono alle persone sieropositive di avere un'aspettativa di vita nella norma e la viremia (quantità di virus circolante nel sangue) pari a zero: zero possibilità di contagio, anche in caso di contatto con liquidi biologici. Zero rischio per chiunque, partner in primis.

Purtroppo, invece, ancora insufficiente è il progresso per una cura contro pregiudizi e ignoranza, una qualche medicina per chi -con cattiveria d’animo o semplice povertà di informazione- discrimina e colpevolizza persone assolutamente normali, col diritto di condurre una altrettanto normale vita.

“Ciao sono Elena Di Cioccio, ho 48 anni e da 21 sono sieropositiva”. Comincia così il discorso della protagonista della storia di oggi, una donna che fieramente ha attraversato e superato tutte le tappe di questo difficile percorso, dalla diagnosi allo sconcerto, dalla negazione alla terapia, dalla vergogna all’accettazione, anzi: alla sicura affermazione di sé stessa.

Le sue parole durante la puntata del 28 marzo de “Le iene”: “Ero molto giovane quando questa diagnosi stravolse completamente la mia vita. All'inizio ho avuto paura di morire, poi di poter fare del male al prossimo”.

È proprio la paura uno dei peggiori sintomi della malattia: quella legittima ed umana di chi teme di vedere stravolta la vita propria e dei propri affetti e quella -decisamente da condannare- di cui veniamo ingiustamente caricati, nostro malgrado, dalla massa. E che spesso porta a nascondersi e a fingere, rinchiudendosi dentro un solitario dolore.

“Ho vissuto la malattia come se fosse una colpa... Mi sentivo sporca, difettosa. Avevo timore di essere derisa, insultata, squalificata dal pregiudizio che ancora esiste nei confronti di noi sieropositivi. Così per difendermi, ho nascosto la malattia iniziando a vivere una doppia vita. Una sotto le luci della ribalta e un'altra distruttiva e depressa. Ma una vita a metà non è vita, e ho capito che ne sarei morta se non avessi fatto pace con quella parte di me. Io sono tante cose e sono anche la mia malattia. Oggi sono fiera di me, non mi vergogno più.”

Dopo lo smarrimento nella selva oscura, dopo un percorso non sempre facile, ecco il finale ritorno a riveder le stelle. Ne sono testimoni le sue parole cariche di consapevolezza, foriere di speranza e di un importante messaggio: con la conoscenza, con la terapia (una pastiglia al giorno, e sono in corso studi su un’ulteriore riduzione ad una sola iniezione mensile) ed anche col supporto di chi ci ama per quel che siamo, si può vivere una vita assolutamente normale, senza timori, limitazioni o vergogne, al pieno delle proprie potenzialità.

“Ora si è negativizzata. Potete toccarmi, abbracciarmi, baciarmi e tutto il resto. Se volete continuare ad avere paura, io lo accetto, però girate lo sguardo verso il vostro vero nemico. L'ignoranza".

Elena riprende il tema nel suo nuovo libro “Cattivo sangue” (edizioni Vallardi, disponibile dal 4 aprile) e ne parla a Vanity Fair: "Ho resistito tantissimo a dire la verità. Ma la verità rende liberi. Lo dice Gesù Cristo nel Vangelo, anche se io sono buddista. Ho accettato che l'Universo mi dicesse: <<Adesso ti metto il mazzo in fila, queste sono le carte. Non serve che mischi, usciranno sempre queste, la carta della salute non c'è. Accetta te stessa, la malattia, tua mamma, la tua famiglia, la vergogna, l'abbandono, il tradimento. Fai pace>>. Ho fatto tutto il percorso e l'ho superata. Ora sono anche quella persona lì, ma non solo”.

L’ex iena conclude ripercorrendo alcune tappe del suo passato: “ [Dopo la diagnosi] Mi sono buttata sul lavoro in radio e in tv, e la sera tornavo a casa e mi stordivo di marijuana per non pensare […] l'endometriosi ha reso ostico il mio percorso di maternità”. Quindi il ricordo dell’infanzia traumatica, della cocaina a 17 anni, il pensiero del suicidio e quello di sua madre, avvenuto nel 2016 che ha definito "la molla del mio cambiamento". 

 

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