Tempio Pausania

Sequestro De André: 42 anni fa la liberazione di Faber e Dori

Rapiti all'Agnata di Tempio nel mese di agosto dall'Anonima sequestri. La drammatica vicenda raccontata nel brano "Hotel Supramonte"

Sequestro De André: 42 anni fa la liberazione di Faber e Dori

Di: Redazione Sardegna Live, foto tratta dal web


Erano le 23 del 20 dicembre 1979 quando Dori Ghezzi venne rilasciata dai rapitori nel territorio di Alà dei Sardi. La cantante, da mesi, era prigioniera nelle montagne fra Pattada e Oschiri dopo essere stata prelevata dall'Anonima sequestri dalla tenuta di famiglia all'Agnata di Tempio insieme al compagno di una vita, Fabrizio De André.

IL RAPIMENTO. Fabrizio De André aveva lasciato la sua Genova nel 1976 per trasferirsi in Gallura, nelle campagne di Tempio Pausania, assieme a Dori Ghezzi. Aveva acquistato 151 ettari di terra in località l'Agnata, dove la coppia aveva recuperato e ristrutturato un vecchio stazzo trasformandolo in una fattoria. Proprio all'Agnata, il 27 agosto 1979, entrarono in azione i banditi che per alcuni giorni erano rimasti nascosti fra i cespugli a ridosso della tenuta controllando con un binocolo i movimenti delle vittime. Attorno alle 23 di quel giorno, il commando prelevò i due artisti che si preparavano ad andare a dormire. "Fummo presi e fatti scendere al piano terra - raccontarono i due in seguito -, dopo averci fatto calzare scarpe chiuse e portato con noi alcune paia di calze. Ci fecero uscire dal retro della casa e fatti sedere sulla nostra macchina, una Citroen Diane 6. Prima di chiudere la porta chiesero a Fabrizio dove fosse l’interruttore per spegnere le luci del giardino". 

Dori e Fabrizio vennero costretti a salire sui sedili posteriori della Citroen con due banditi a fianco, l'altro guidò la vettura viaggiando verso la statale Tempio-Oschiri. Tra Monti e Alà dei Sardi vennero fatti scendere dall'auto e consegnati ad un quarto malvivente che li condusse a Sa Linna Sicca, nelle montagne di Pattada, dopo ore di marcia forzata. Dori ricorderà: "Scendemmo definitivamente dalla macchina e iniziammo il tragitto a piedi per la campagna che alternava tratti scoscesi a tratti pianeggianti e poi ripidi, tra cespugli e rovi, con la testa incappucciata. Camminammo per circa due ore. Dopo una sosta di riposo, riprendemmo il trasferimento in percorsi ancora più accidentati, camminando per qualche ora ancora. Dopo di che, sfiniti, ci fermammo, trascorrendo la notte all’addiaccio. Il cammino riprese il giorno successivo, percorrendo un tragitto interamente in salita, fino all’imbrunire. Raggiunta la destinazione, per la prima volta ci tolsero le maschere e alla nostra vista si presenta la sagoma di un bandito incappucciato. Apprendemmo che si trattava di uno dei nostri custodi, che ci accompagnerà per tutta la prigionia e che Fabrizio battezzerà col nome “il rospo” per via della sua voce gracchiante". Il 29 agosto l'auto di De André venne ritrovata dalla polizia sul molo di Olbia, un evidente tentativo di depistaggio.

LA PRIGIONIA. I prigionieri rimasero nel primo nascondiglio per circa una settimana dormendo all'aperto. Poi la coppia venne spostata in un nuovo rifugio, dove rimase per qualche mese. Racconterà Dori: "Quando è iniziata la stagione fredda ci hanno dotato di una piccola tenda per ripararci dalle intemperie. Abbiamo sostato in quel luogo fino alla interruzione delle trattative condotte dai secondi emissari. Le informazioni che ci davano erano che il padre di Fabrizio non volesse pagare il riscatto. Ci proponevano di liberare Fabrizio per pagare il mio riscatto o, viceversa, di liberare me affinché Fabrizio convincesse il padre a pagare la mia liberazione. Alla supplica di Fabrizio di alleviarci dalla torture delle bende i banditi acconsentirono, legandoci però con delle catene perché non scappassimo. Uno dei banditi, che di tanto in tanto veniva per accertarsi delle nostre condizioni, raccomandando ai custodi di trattarci bene, comunicava in italiano corretto e forbito, si esprimeva in modo calmo e gentile, che Fabrizio chiamava "l’avvocato"".

"Dopo il 5 novembre siamo stati nuovamente spostati su un altro versante della montagna. In quel rifugio le tende erano due, una per noi e una per i custodi; ci dotarono anche di un fornello da campo e di una bombola di gas per preparare cibi caldi. Fino ad allora ci nutrivano con pane e formaggio, salsiccia e scatolame".

Racconterà Fabrizio: "Ci sono stati giorni che pensavamo di non riuscire a sopravvivere a quelle condizioni estreme. Conservai il tappo di una scatoletta, non si sa mai che avessi potuto usarlo qualora le forze non mi avessero sorretto".

INDAGINI E TRATTATIVE. Fin dalla prime fasi delle indagini, coordinate dal capitano Vincenzo Rosati del Comando dei Carabinieri di Tempio, gli inquirenti ritennero che il sequestro fosse maturato in ambiente orunese. Una volta individuate quelle che potevano essere persone chiave nella vicenda, gli investigatori fecero mettere sotto controllo gli apparati telefonici dei sospettati. Il nucleo originario della banda risultò essere composto proprio da due orunesi e da un veterinario di Radicofani (Siena), vicino all'ambiente pastorale sardo in Toscana. I tre, nei mesi precedenti il rapimento, si erano recati spesso a Tempio per cercare i contatti che consentissero di avere informazioni a sufficienza per portare a compimento il progetto criminale. Una volta individuato il basista, era necessario completare la banda con gli elementi che avrebbero dovuto prelevare le vittime, trattare con la famiglia e portare a termine altri compiti minori. Vennero così coinvolti alcuni componenti di Pattada e alcuni latitanti che avrebbero potuto sorvegliare la coppia durante la prigionia. 

Dalle indagini emerse come le vittime avessero indirizzato una lettera al padre di Fabrizio, nella quale gli riferivano che i rapitori avevano richiesto un riscatto di 2 miliardi di lire. La famiglia De André incaricò l'avvocato Pinna di Sassari di seguire la vicenda e prese contatti col parroco del Sacro Cuore di Tempio, don Salvatore Vico, al quale fu chiesto di fungere da emissario. Così don Vico, assieme ad una Guardia forestale di Tempio, prese contatto con i rapitori e li incontrò nelle campagne di Orune, ricevendo un ritaglio di giornale con le firme dei prigionieri che dimostrava la loro buona salute. Il sacerdote tentò di convincere i banditi a ridimensionare le pretese, ma il tentativo di mediazione fallì.

A inizio novembre vi fu un nuovo contatto fra sequestratori e famiglia. Emissari della famiglia, in quel caso, furono Gesuino Dessì e F.P., che risultò poi essere il basista del sequestro. Gli emissari incontrarono per due volte i rapitori nella valle di Marreri, a Orune, e i banditi minacciarono di uccidere gli ostaggi se la famiglia non avesse pagato al più presto 300 milioni di lire come anticipo del riscatto. Una terza fase vide nuovamente don Salvatore Vico e un facoltoso commerciante di Orune, impegnati nel ruolo di emissari. Il religioso riuscì a portare a compimento le trattative, con il riscatto che venne fissato a 550 milioni di lire e pagato, portando alla liberazione degli ostaggi. Altri 50 milioni sarebbero dovuti essere consegnati dopo la liberazione, impegno che venne onorato da De André. 

LA LIBERAZIONE. Alle 23 del 20 dicembre, a pochi chilometri da Alà dei Sardi, venne rilasciata Dori Ghezzi, che fu soccorsa da don Vico. Alle 21 del 21 dicembre, invece, venne liberato Fabrizio nei pressi di Buddusò. Erano passati 117 giorni dal sequestro. Raccontò Dori: "Il 20 dicembre il mio guardiano mi disse che avevano deciso di liberarci. Verso le 15 ci incamminammo a piedi percorrendo un tratto di terreno molto scosceso, col viso incappucciato. Camminammo per almeno tre ore. Passammo vicino ad una cascata d’acqua, poi attraversammo un fiume. Sentivo l’abbaiare di cani, presumo vicino ad un casolare o forse un ovile; lo intuisco da alcuni rumori. Aspettammo tante, tantissime ore vicino ad una strada nascosti tra i cespugli fino a notte inoltrata. Sono circa le 23 quando finalmente arriva una macchina che ci carica a bordo. Io ero sempre con le mani legate e mascherata, sorvegliata dai due banditi. Dopo un po’ di strada, forse mezz’ora, mi fecero scendere lasciandomi sul ciglio della strada in attesa che gli emissari mi venissero a prendere".

Fabrizio, nel frattempo, era rimasto nella tenda col suo carceriere. L'indomani, dopo aver ripulito il nascondiglio, si allontanarono anche loro. "Dopo alcune ore di marcia in compagnia del mio guardiano raggiungemmo una strada asfaltata. Mi disse di aspettare che sarebbero venuti a prendermi per accompagnarmi a casa. Dopo qualche ora di attesa mi raggiunge l’emissario, ora apprendo che si trattava di G.C., il quale mi fa salire sui sedili posteriori dell’auto. Mi porterà fino all’abitazione di Portobello, dove mi attendono i miei familiari".

ARRESTI E SENTENZE. Alle 20 del 25 dicembre, la sera di Natale, i carabinieri di Tempio e del Reparto operativo di Sassari arrestarono F.P., ritenuto essere il basista del sequestro, e suo fratello (poi scagionato dal giudice istruttore del Tribunale di Tempio Luigi Lombardini). L'11 marzo 1980 i carabinieri di Radicofani arrestarono il veterinario, che aveva versato presso uno sportello della Banca Popolare di Chiusi 13 milioni di lire provenienti dalla somma pagata dal padre di De André. Inizialmente negò un suo coinvolgimento nel sequestro, ma in seguito confessò e collaborò alle indagini consentendo l'identificazione degli altri componenti della banda.

Ai dieci imputati accusati di sequestro di persona se ne aggiunsero altri due accusati uno di riciclaggio ed uno di truffa, avendo trattenuto per sé un'importante parte del riscatto mentre agiva in veste di emissario. Fabrizio e Dori si costituirono parte civile contro i mandanti (G.P., P.G., S.M., P.D. e M.C.), perdonando invece i carcerieri e la manovalanza.

Il 20 marzo 1983 il giudice del Tribunale di Tempio Pausania Mario Cabella pronunciò la condanna a 9 anni per M.C e S.M, assessore comunale di Orune, e a 9 anni e 10 mesi per il macellaio di Pattada P.D. Questi beneficiarono di importanti sconti di pena per la loro collaborazione con la giustizia. Gli orunesi G.M e G.P, uno facente parte del primo del gruppo di prelievo e l'altro custode degli ostaggi, vennero condannati a 25 anni e 8 mesi. M.M venne condannato a 20 anni e 2 mesi. Per F.P la pena fu di 18 anni e 6 mesi, ridotta in secondo grado a 10 anni e 10 mesi. Il pattadese S.V., vivandiere della banda, fu condannato a 25 anni e 4 mesi. L'orunese P.G, cassiere del gruppo, venne condannato a 16 anni e 10 mesi così come C.M. Il commerciante di Sennori S..C. venne condannato a 4 anni per riciclaggio, mentre per l'emissario G.C. la pena fu di 5 anni di reclusione (pena ridotta in secondo grado a 3 anni).

HOTEL SUPRAMONTE. La vicenda del sequestro ispirò la produzione artistica successiva del cantautore genovese, il quale riprese l'attività musicale nei mesi successivi alla liberazione. Al sequestro De André dedicò il brano Hotel Supramonte, incluso nell'album "L'indiano" del 1981. Sebbene il massiccio del Supramonte sia effettivamente stato il nascondiglio di molti famosi criminali sardi, De André e Dori Ghezzi non furono mai tenuti prigionieri in quel luogo.

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