La presidente della Regione Sardegna Alessandra Todde oggi ha presenziato alle celebrazioni ufficiali de “Sa die de Sa Sardigna 2025” che si sono tenute nel Consiglio regionale della Sardegna. Dopo l’esecuzione di “Procurad’ ‘e moderare”, l’inno del popolo sardo, quello italiano, quello Europeo, l’Inno alla Gioia, il coro del Teatro Lirico ha eseguito anche la celebre “No potho reposare” e il Va pensiero di Giuseppe Verdi, il presidente del Consiglio ha aperto ufficialmente la giornata di festa con un discorso basato sull’importanza dell’unità del popolo sardo.

A seguire l’assessora della Cultura, Ilaria Portas, ha portato i saluti della Regione aprendo e chiudendo il suo discorso in lingua sarda. L’assessora si è rivolta principalmente alle scolaresche presenti – le studentesse e gli studenti dell’istituto superiore “Ciusa” di Nuoro e del “Muggianu” di Orosei – oltre al coro dell’Università della terza età “Utes” di Sestu: “invito voi e i vostri insegnanti a cogliere l’occasione di questa giornata per approfondire e studiare la nostra storia. Solo conoscendo da dove veniamo possiamo capire chi siamo. Conoscere e studiare la storia della Sardegna ci aiuta a riscoprire quello spirito e quell’orgoglio che ci rendono fieri della nostra identità”. L’assessora ha poi esortato i ragazzi a riprendersi in mano il loro futuro: “fate tesoro della nostra storia, anche dei nostri errori. Non permettete a nessuno di rubarvi il futuro. Lottate, con tutte le vostre forze, come fecero i nostri antenati”.

Ed è proprio facendo leva sul significato politico de Sa Die e degli eventi che portarono al 28 aprile del 1794, che si è aperto il discorso della presidente Alessandra Todde.

“231 anni sono passati da quando il popolo sardo, in quel 28 aprile del 1794, si ribellò all’oppressione. Già allora la Sardegna, che millenni prima aveva generato una delle più avanzate civiltà dell’epoca, quella nuragica, veniva da una storia di dominazione e sfruttamento che è proseguita nei secoli successivi.

Torniamo per un attimo a QUEL 28 aprile, a Cagliari prima e poi, nei giorni seguenti, a Sassari e ad Alghero, alle tensioni che covavano. Portiamo le nostre menti a tutti i centri dell’interno che insieme alle città si sollevarono contro i funzionari piemontesi, in reazione allo sfruttamento diffuso e alla condizione di oppressione che la Sardegna stava vivendo.

Il 28 aprile fu una conseguenza della presa di coscienza delle proprie forze da parte del popolo sardo, dei vassalli delle campagne, dei ceti produttivi e dei professionisti delle città. Un processo iniziato un anno prima, quando i feudatari e i nobili delle campagne, chiamarono a raccolta i propri vassalli per organizzarli in milizie e contrastare così le truppe rivoluzionarie francesi che volevano tentare uno sbarco nell’isola. Fu in quel momento che i sardi, riuniti assieme contro un nemico comune, si resero conto che potevano contrastare chi li opprimeva in casa loro: i feudatari e il governo sabaudo.

Una eterogenesi dei fini che portò in poco tempo prima alla richiesta di incarichi di governo civile e militare, poi a una maggiore coscienza politica di autogoverno e di superamento dell’anacronistico sistema feudale.

Non è certo questa l’occasione per un’analisi storiografica, che peraltro i nostri storici hanno già abbondantemente prodotto nelle sedi deputate alla ricerca e al dibattito. Quello che mi preme sottolineare qui, nella massima assemblea organizzata del popolo sardo, è che quando noi ci uniamo, quando superiamo le divisioni, quando superiamo la rassegnazione e prendiamo coscienza di ciò che siamo, del nostro valore, riusciamo in missioni che, poco prima, noi stessi ritenevamo impossibili.

Il 28 aprile e i successivi moti antifeudali Angioyani, ci dicono però anche altro: che spesso chi ci boicotta sono le forze ostili al cambiamento, quelle che guadagnano da rendite di posizione e che per questo ostacolano lo sviluppo per il bene comune.

Anche allora, infatti, ci fu chi tradì la spinta al cambiamento e collaborò con l’oppressore per ristabilire lo status quo: i funzionari sabaudi tornarono infatti dopo poche settimane e la restaurazione di un potere ancora più prevaricante portò alla fine, nel 1847, alla perdita completa dell’autonomia.

“La storia insegna ma non ha scolari”, disse uno dei nostri più insigni concittadini, Antonio Gramsci. Ebbene, noi qui, oggi, possiamo dimostrare di essere invece dei suoi ottimi alunni e imparare dalla storia, imparare da quegli errori. Saper individuare quali sono le forze interne ed esterne ostili al cambiamento e allo sviluppo della Sardegna e contrastarle, è la nostra missione attuale. Ed è su questo che vorrei chiamare a raccolta le migliori forze civili e politiche di quest’isola, per combattere una battaglia moderna in difesa e per l’applicazione completa della nostra autonomia, per il futuro della Sardegna.

È necessario, ora più che mai, unire le forze e ricordare come la reazione all’oppressione, alla tirannia, il richiamo al senso di giustizia come il valore più alto e come sprone per il coraggio e

l’azione, siano temi che tornano nella nostra letteratura, nella nostra storia, nel pensiero delle nostre persone più illustri e come, applicati alla realtà attuale, siano temi da cui attingere e trarre ispirazione per cambiare le cose, per trasformare la nostra condizione e ridare dignità a un popolo che dignità merita di avere.

L’oppressione perdurata per secoli è diventata sfruttamento, dipendenza economica. L’abbiamo giustificata con l’isolamento, l’abbiamo spesso subìta e troppe volte l’abbiamo elaborata in rassegnazione, la peggiore delle condizioni, perché è la legittimazione della subordinazione e della dipendenza.

Eppure, ci basta guardare alla storia per trovare una certezza: la condizione di oppressione, di sfruttamento, non è mai stato un limite alla forza delle idee. La condizione dei sardi non ha impedito che proprio qui, in Sardegna, siano nati alcuni tra i più sensibili, brillanti e sempre attuali pensatori e uomini d’azione.

Oggi voglio che ci soffermiamo insieme sulle varie forme con cui in questa terra la reazione ha preso forma, dal 1794 ad oggi, sulle nostre tante dies de sa Sardigna.

Voglio ricordare con voi la forza di un giovane ufficiale della Brigata Sassari, che ha saputo trasformare lo spirito di sacrificio di contadini-soldati in aspirazione al diritto di essere rappresentati. Per dar loro voce ha fondato un partito su solide basi antifasciste, le stesse basi che l’hanno prima costretto ad un esilio di lotta, con Carlo Rosselli, poi a dare un contributo decisivo alla Costituzione repubblicana e allo Statuto di Autonomia della Sardegna. Quel giovane ufficiale si chiama Emilio Lussu, è di Armungia, il suo antifascismo militante è universale.

Voglio ricordare con voi la reazione straordinaria di un ragazzino povero di Ghilarza, che è stato capace di produrre uno dei pensieri politici più originali del ‘900, un pensiero ancora oggi vivo nelle università di tutto il mondo per la capacità generativa che le sue idee sono ancora in grado di sprigionare. Quel bambino si chiama Antonio Gramsci, è nato ad Ales ed è cresciuto a Ghilarza, il suo pensiero è del mondo.

Voglio ricordare ancora con voi l’incrollabile senso della giustizia di un ventunenne che durante i “moti del pane”, nel gennaio del ’44, pagò col carcere l’impegno e l’attivismo profusi per sfamare la sua gente. Quel ragazzo sarebbe poi diventato segretario del più grande partito comunista europeo, capace di porre il dialogo democratico e la moderazione al centro dell’esperienza politica italiana, di rigenerare il pensiero progressista europeo in chiave di autonomia e indipendenza da Mosca e di porre al centro del dibattito la questione morale con parole che hanno ispirato generazioni di giovani ad impregnarsi per la cosa pubblica. Quel ragazzo sarebbe stato capace di dialogo con la sua controparte politica, penso ad Aldo Moro e a Giorgio Almirante si chiama Enrico Berlinguer, lui è di Sassari, la sua rettitudine e il suo pensiero sono patrimonio europeo.

Tre grandi esempi, tre vite che ancora oggi sono capaci di trasmettere energia e voglia di impegnarsi per cambiare le cose. Ognuno di loro, a suo modo, ha tenuto viva la fiaccola accesa il 28 aprile 1794. Ognuno di loro ha creduto nella possibilità di emancipazione del popolo sardo, sia essa sociale, politica o culturale. Ognuno di loro ci ha insegnato a non rassegnarci ma, invece, a guardare avanti con coraggio e speranza.

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Ed eccoci al presente, al nostro compito attuale. Cosa significa oggi, nel 2025, mantenere viva quella fiaccola, quel coraggio, quella voglia di reagire? Quale idea di Sardegna vogliamo costruire, ispirati da questo grande passato ma con lo sguardo rivolto al futuro?

Una Sardegna dell’emancipazione sociale. Un’isola in cui nascere in una famiglia povera non significhi essere condannati ad avere meno opportunità. In cui ogni bambina e ogni bambino possa studiare, crescere, costruirsi un futuro qui, senza dover andare via se non per scelta. Una Sardegna dove il lavoro sia un diritto garantito e sicuro, non un privilegio per pochi, dove le disuguaglianze – tra città e paesi, tra coste e interno, tra uomini e donne – vengano sanate da politiche giuste e lungimiranti. Emancipazione sociale significa anche combattere ogni forma di discriminazione, liberare le energie positive delle nostre comunità. Per quante volte ancora dobbiamo sentire descrivere la Sardegna come stereotipo dell’arretratezza? Troppo spesso in passato i nostri giovani migliori hanno dovuto cercare fortuna altrove, e interi paesi dell’interno si sono spopolati. Ebbene, noi diciamo basta a questo destino rassegnato. Vogliamo creare le condizioni perché chiunque voglia restare, tornare o venire in Sardegna, lo possa fare con orgoglio, trovando un tessuto sociale vivo, fertile, solidale, in cui realizzarsi. Questo è il senso più alto dell’autonomia: dare ai sardi gli strumenti per decidere e agire sul proprio sviluppo, per non essere più gli ultimi in nulla.

Una Sardegna dell’innovazione tecnologica. Dobbiamo investire con coraggio nelle nuove tecnologie. Pensiamo alle opportunità del digitale: la rete internet annulla le distanze, permette alle imprese sarde di vendere nel mondo, ai professionisti di lavorare da qui per clienti globali, agli studenti di accedere al sapere universale. Sfruttare la straordinaria opportunità trasformativa dell’Einstein Telescope per sviluppare attrazione di investimenti e di talenti.

Una Sardegna della modernità culturale. La nostra è una terra di cultura antica e viva. 

È la terra di Grazia Deledda, che da Nuoro seppe parlare al mondo intero meritando il premio Nobel; la terra dei nuraghi, delle domus de janas, dei Giganti. È la terra delle launeddas e dei tenores, che incantano e che l’UNESCO ha riconosciuto patrimonio immateriale dell’umanità. Ma Sardegna culturale oggi vuol dire anche arte contemporanea, cinema, letteratura, nuove forme di espressione. I nostri giovani artisti vincono premi in Europa, i nostri registi portano scorci di Sardegna nei festival internazionali, i nostri musei e le nostre biblioteche innovano nei linguaggi e testimoniano una cultura di valore, viva e tutta da valorizzare, conoscere e far conoscere. Modernità culturale significa sapere coniugare l’orgoglio identitario con la mente aperta. Nessuno ama la Sardegna più di noi sardi, ma amare la nostra terra vuole dire farla dialogare col mondo, NON chiuderla in sé stessa. Penso alla valorizzazione della lingua sarda nelle sue numerosissime sfaccettature e non lo penso come reliquia del passato, ma come ponte verso il futuro: studiare e usare la lingua sarda, rafforza la nostra identità e al tempo stesso ci rende unici nel panorama globale, ci permette di resistere a quella egemonia culturale che, tornando a Gramsci, è nemica della libertà.

E sempre pensando alla modernità, penso anche alla cultura dell’inclusione: la Sardegna è stata terra di emigrazione ma anche di accoglienza; popoli diversi si sono incontrati qui nei secoli, e noi vogliamo continuare a essere una società aperta, dove chi viene da fuori si sente a casa e chi è nato qui non ha paura del diverso, del nuovo. Una Sardegna culturalmente moderna è una Sardegna che investe in scuole, in teatri, in spazi di creazione, che porta la sua cultura in ogni paese e accoglie le culture di tutti i paesi, che incoraggia il dialogo tra generazioni. 

Perché senza cultura non c’è futuro.

Una Sardegna protagonista nel Mediterraneo e in Europa. Basta guardare la cartina geografica: la nostra isola è un ponte naturale tra Europa e Africa. Per troppo tempo questa centralità geografica non si è tradotta in centralità politica o economica. Dobbiamo avere l’ambizione di cambiare questo stato di cose. Essere centrali nel Mediterraneo significa fare della Sardegna un centro di dialogo fra i popoli di questo mare, un luogo di incontro e cooperazione. In un Mediterraneo spesso teatro di conflitti, di crisi umanitarie, di divisioni, la Sardegna può offrire un modello di convivenza e pace. Possiamo essere un’isola di pace dove discutere di disarmo, di diritti, di sviluppo sostenibile per l’intera area mediterranea. E allo stesso tempo essere centrali in Europa: la Sardegna, pur con le sue peculiarità, è parte integrante dell’Unione Europea, ne condivide i valori di democrazia e libertà. Dobbiamo far sentire più forte la voce dei sardi in Europa: nelle politiche che ci riguardano, a partire dalla coesione territoriale che per noi non sarà mai negoziabile con il riarmo, e sui trasporti, sull’accoglienza, sulla transizione ecologica. In breve, una Sardegna che da periferia diventa centro: centro di idee, di incontri, di nuove opportunità.

Questo è ciò per cui stiamo lavorando. Un progetto ambizioso, sì, ma alla nostra portata se sapremo essere all’altezza della nostra storia. Sa Die de sa Sardigna ci ricorda che i sardi, quando fanno comunità, sanno compiere imprese straordinarie. Ce lo ricordano i contadini e gli artigiani del 1794, che senza eserciti e senza aiuti esterni si ribellarono a un governo ingiusto. Ce lo ricorda Emilio Lussu, che con pochi uomini coraggiosi tenne viva la fiamma della libertà durante la notte più buia della dittatura. Ce lo ricorda Antonio Gramsci, che dal buio di una cella costruì con le idee un avvenire possibile per gli oppressi. Ce lo ricorda Enrico Berlinguer, che con la forza gentile dell’esempio cambiò il modo di fare politica, mettendo al centro l’onestà e le persone comuni. Siamo eredi di giganti. Abbiamo sulle spalle il peso e l’onore di quanto hanno fatto per noi, e sta a noi il compito di esserne degni, portando avanti quella lotta con strumenti nuovi, ma con la stessa passione.

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E allora, in questa giornata di festa e memoria, invito ciascuno di voi a sentirsi parte attiva di questo cammino. Le istituzioni, da sole, non bastano: abbiamo bisogno dell’energia del nostro popolo, di tutti voi. Abbiamo bisogno dei giovani, di voi giovani che mi ascoltate, perché siete voi il seme del domani: studiate, formatevi, partecipate, come ci esortava Gramsci: “Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza; agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo; organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza”. Abbiamo bisogno della forza e della saggezza degli anziani, memoria storica vivente delle nostre comunità. Abbiamo bisogno dell’impegno delle donne sarde, che da sempre sono colonne della nostra società e oggi più che mai contribuiscono con talento e competenza in ogni campo. Abbiamo bisogno degli imprenditori onesti, dei lavoratori instancabili, degli insegnanti appassionati, degli artisti, dei contadini, dei pastori, di tutti coloro che amano questa terra e ogni giorno, magari in silenzio, fanno il loro dovere e qualcosa di più per il bene comune. Un popolo, per risollevarsi, deve camminare unito. Ce l’ha insegnato la nostra storia e io so che il popolo sardo sa essere unito nelle sfide cruciali.

Insieme, con unità, orgoglio e speranza, possiamo davvero rendere la Sardegna ciò che può e deve essere: una terra prospera, giusta, innovativa e aperta. Una terra in cui il fatto di essere un’isola in mezzo al mare non sia più un limite ma una singolare ricchezza”.

E tando, comente s’annu passadu, kerzo narrere in nugoresu, bona die de sa Sardigna a totus!”