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Negli ultimi anni, l’informazione ha subito una trasformazione radicale, alimentata dal declino del giornalismo tradizionale e dall’ascesa dei media digitali. Secondo l’ultima rilevazione dell’Agcom pubblicata a marzo del 2025, meno del 7% degli italiani paga per accedere ai quotidiani online, mentre la maggior parte delle persone — in particolare i più giovani — si informa tramite internet e social media. Piattaforme come Facebook rappresentano oggi le principali fonti d’accesso alle notizie, ridisegnando la mappa del potere informativo.
Questo cambio di paradigma ha favorito la nascita di nuove voci e forme di divulgazione, ma ha anche generato nuove forme di censura, spesso più subdole. Shadow banning, demonetizzazione, sospensioni arbitrarie: chi sceglie di non allinearsi alla narrazione dominante può ritrovarsi rapidamente ai margini del dibattito pubblico, anche senza un’accusa formale.
In questo contesto si inserisce la storia di Claudia Sarritzu, giornalista sarda con una lunga esperienza alle spalle. Dopo aver collaborato con radio e quotidiani locali, ha scritto per dieci anni su politica nazionale e internazionale per Globalist. È autrice di due saggi: 'La Sardegna è un'altra cosa', un’indagine sulla crisi economica nell’Isola, e 'Parole avanti', dedicato al linguaggio di genere e ai nuovi femminismi in Italia e all’estero. Ha vinto nel 2019 il premio nazionale di saggistica “Giuditta”. Ha inoltre realizzato decine di interviste video per Tiscali, dialogando con alcuni tra i maggiori scrittori del panorama italiano. Oggi lavora nel campo della comunicazione istituzionale.
Nonostante il suo solido percorso professionale, Claudia è stata recentemente censurata da Meta: i suoi profili sono stati rimossi dopo la pubblicazione di contenuti — foto, video e testimonianze — relativi a quanto sta accadendo nella Striscia di Gaza. La sua vicenda solleva interrogativi urgenti sul ruolo degli algoritmi, sulla libertà d’espressione online e sui nuovi confini — spesso opachi — tra informazione e censura.
Claudia, partiamo dall'inizio. Com'era il tuo rapporto con i social network e cosa è accaduto?
"Io li ho sempre utilizzati, anche per la vita privata, postavo foto di viaggi, cose normali, come tutti.
L'account ce l'avevo diviso in due profili. Il primo, nato nel 2008, che solo dopo ho trasformato in business, era arrivato a 8mila follower, il secondo ne contava 26mila, era stato creato molti anni dopo, quando mi ero candidata alle elezioni regionali, avevo scritto un secondo libro, e mi serviva una vetrina pubblica. Le mie pagine le ho sempre utilizzate però senza seguire regole rigide di pubblicazione o particolari differenziazioni, postavo un po' da una parte e un po' dall'altra.
In questo ultimo mese mi sono concentrata molto sulla situazione a Gaza. Avendo lavorato dieci anni a Globalist, scrivendo di politica estera, anche se adesso mi occupo di altro, l'impostazione è rimasta, così come la passione".
Porti comunque la tua esperienza in questo campo, a livello divulgativo.
"Ovviamente. Era un qualcosa che seguivo, ed ero anche personalmente e umanamente colpita dalla vicenda. Quindi, ho iniziato a condividere post e articoli, prendendo informazioni soprattutto dai giornalisti sul campo. I post hanno iniziato a esplodere, sono arrivate migliaia di condivisioni.
Nell'ultima settimana ho contato 2.000 follower in più e 2.000 follower senza sponsorizzate nè altro non sono pochi. Io tra l'altro non avevo la spunta blu, ma ora ho scoperto che chi paga per avere quel badge di verifica ha diritto a una tutela maggiore da parte dell'azienda madre, con la possibilità di controlli umani invece che, come nel mio caso, controlli esclusivamente automatizzati.
Dopo tutte le condivisioni, tutti i nuovi follower, mi è arrivata la prima segnalazione che diceva che l'account era stato temporaneamente sospeso, che stavano facendo delle verifiche, e che nel giro di una giornata mi avrebbero fatto sapere. In verità, tre ore dopo avevano già finito i loro controlli, dai quale era emersa la violazione degli standard della community. Una sentenza che non vuol dire niente. Se io avessi leso delle regole della piattaforma, pensiamo all'incitamento alla violenza, o alla pornografia, me lo avrebbero specificato. Sotto questi aspetti sono sempre stata abbastanza attenta perché so come funziona".
Invece cosa è successo?
"È successo che tutto questo ha attirato l'attenzione: si trattava di una visibilità che è esplosa in poco tempo, e devono essere arrivate centinaia di segnalazioni, io immagino, di qualcuno che non era contento del mio racconto su Gaza e sulla Striscia. Almeno 100 persone su 16mila condivisioni che ti segnalano ci sono, soprattutto sui argomenti che generano odio online come questi.
Io riprendevo le immagini, riportate anche dalla Stampa e altri quotidiani, ma i miei erano profili, possiamo dire, di una 'persona normale', senza neanche la spunta blu, cresciuti in maniera così spropositata e questo deve aver insospettito anche l'algoritmo.
Mi era capitato qualcosa di simile in passato, ogni volta che c'era la parola Trump per esempio venivano abbattute le visualizzazioni, però in quel caso ero stata avvisata, il post veniva oscurato con annessa motivazione, Meta dialogava.
Ora è stato buttato tutto all'aria dal nulla e per riavere indietro i contenuti dovrei rivolgermi alla Giustizia Civile. Non sono l'unica che ha subito questo tipo di censura, ne sono stati vittime anche altri giornalisti, divulgatori, addirittura artisti, che si sono esposti politicamente".
La tua voce, che è quella di una giornalista, e di una giornalista che si è occupata proprio di politica estera, con un seguito di non poco conto, aveva una risonanza e un'esperienza tale per cui poteva riportare in maniera corretta e coerente una storia importante. Dov'è il problema nell'informazione di oggi?
"La cosa che secondo me dovrebbe far riflettere è questa: oggi ci rendiamo conto che purtroppo il giornalismo ufficiale sta un po' deludendo. I social sono diventati importanti quindi. Per esempio, grazie a Instagram e ai profili dei colleghi palestinesi noi vedevamo davvero cosa accadeva dentro la Striscia, visto che i giornalisti stranieri non potevano entrare, però se i social si basano ancora spesso solo su degli algoritmi, basta che un gruppo politico, o religioso, se la prenda con te per i contenuti che pubblichi, che la piattaforma cancelli tutto il tuo lavoro. Così non si può andare avanti, perché se noi stiamo sostituendo l'informazione ufficiale con i social network, ed è quello che sta succedendo, allora occorre rivedere completamente le regole per garantire il corretto dibattito e la democrazia.
Il badge di verifica a pagamento lo trovo uno strumento ingiusto per come è strutturato al momento. Riesce a pubblicare con più garanzie solo chi paga e nemmeno poco, parliamo di 10 euro al mese, più le sponsorizzazioni che vengono richieste per essere visti, e alla fine diventa un'informazione esclusivamente a pagamento, solo chi può permetterselo può informare".
Mi hai detto che hai avuto molte condivisioni e molte visualizzazioni per quei post. Da esperta, diresti quindi che la società risponde bene alla necessità di sapere e di condividere quanto sta succedendo nella Striscia di Gaza?
"Secondo me la società risponde molto bene alla questione. Personalmente, ho constatato parecchia attenzione e sensibilità sul tema da parte degli utenti. Io mi occupavo soprattutto di linguaggio di genere, di discriminazioni, e non raggiungevo quei numeri. Un sondaggio di Ipsos della scorsa settimana evidenziava come il 73% degli italiani volesse un intervento anche politico per denunciare e condannare i fatti di Gaza: questo fa capire che l'interesse è trasversale e questo interesse poi si rispecchia nel desiderio di sapere, di conoscere".
Il caso di Claudia Sarritzu segue quello di Matteo Meloni, giornalista sardo esperto di geopolitica ed esteri, anch’egli messo a tacere dopo aver trattato il conflitto israelo-palestinese. In un'epoca in cui l’informazione passa sempre più dalle mani degli utenti e dei creator indipendenti, e in cui il giornalismo tradizionale fatica a rispondere al bisogno di chiarezza e pluralità, l’arbitrio degli algoritmi diventa una minaccia concreta alla libertà di espressione. Se chi ha competenza e autorevolezza viene oscurato senza spiegazioni, occorre domandarsi, cosa resta del dibattito pubblico? E, soprattutto, chi decide cosa possiamo o non possiamo sapere?