La figura di Alberto Mario Dettori, maresciallo dell’Aeronautica militare, è una delle più emblematiche dei 45 anni di silenzi e depistaggi che hanno caratterizzato la ricerca della verità in merito alla strage di Ustica, avvenuta nei cieli del Tirreno il 27 giugno 1980. Qualla sera un aereo della compagnia Itavia diretto da Bologna a Palermo esplose in volo causando la morte di 81 persone.

In merito alle cause, mai del tutto chiarite, la più autorevole opinione arrivò nel 2007 dal presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga, all'epoca dell'incidente presidente del Consiglio. Cossiga attribuì la responsabilità involontaria dell'abbattimento a un missile francese lanciato da un velivolo dell'Aéronavale. Secondo la ricostruzione, di recente confermata anche dall'ex premier Giuliano Amato, il missile sarebbe stato destinato a un velivolo libico su cui si sarebbe trovato il dittatore libico Mu'ammar Gheddafi. Un'analoga tesi è alla base della conferma, da parte della Cassazione, della sentenza di condanna civile al risarcimento ai familiari delle vittime, emessa contro il Ministeri di Trasporti e Difesa dal Tribunale di Palermo.

CHI ERA DETTORI?

Originario di Pattada, l'uomo, 32enne all'epoca, era sposato e aveva tre figli. Con la qualifica di controllore assistente di difesa aerea (radarista), era in servizio presso il radar di Poggio Ballone (Grosseto), la sera in cui l'aereo DC-9 della compagnia Itavia diretto da Bologna a Palermo e con a bordo 81 persone esplose fra Ponza e Ustica. Sullo schermo di sua competenza, Dettori avrebbe assistito quella notte a qualcosa di incredibile. Il volo Itavia circondato da jet militari americani, francesi, libici, forse anche italiani. Il segnale del DC-9 improvvisamente venuto a mancare, 81 persone inabissatesi in mare.

Rientrato a casa dopo il turno di lavoro, ricordano i familiari, pareva profondamente turbato e riferendosi all'accaduto raccontò nelle prime ore: «Siamo stati noi, stava scoppiando la terza guerra mondiale». E ancora, parlando con la moglie, «Sono molto scosso. Qui è successo un casino, qui vanno tutti in galera!». Qualche giorno più tardi, Dettori aveva contattato telefonicamente il capitano Mario Ciancarella, nei confronti del quale nutriva profonda fiducia, e gli aveva confidato «Siamo stati noi a tirarlo giù, capitano, siamo stati noi. Ho paura, capitano, non posso dirle altro al telefono. Qui ci fanno la pelle».

ANNI DI PAURA

Nell’aprile del 1986, l'uomo venne mandato in missione per alcuni mesi in Costa Azzura, presso il radar di Monte Agel. Dopo quella esperienza, come ricostruito dalla famiglia, iniziò ad avvertire un malessere costante: mal di testa, vertigini, mal di denti. Uno stato di insicurezza e agitazione che non facevano parte della sua indole gioviale ed energica. «Era strano, come se gli avessero fatto il lavaggio del cervello», raccontò la moglie Carla Pacifici al giudice Rosario Priore. Alberto Dettori si sentiva sorvegliato e pedinato, cercava microspie, aveva il terrore di essere sotto controllo.

UNA MORTE SOSPETTA

La mattina del 31 marzo 1987 uscì di casa per accompagnare a scuola il figlio Marco, poi si persero le sue tracce. Insospettita dall'insolito ritardo, la moglie si attivò insieme ad alcuni amici per cercarlo. Il suo corpo venne trovato attorno alle 17 in località Sassi Bianchi, nelle campagne di Grosseto, appeso al ramo di un albero in un modo "innaturale". Nessuna autopsia, nessun esame sul cadavere del maresciallo. Il caso venne archiviato come suicidio, un esito che continua a suscitare dubbi e contestazioni, soprattutto da parte della famiglia, che ha sempre negato l’ipotesi di un gesto volontario.

Negli anni, fra i militari e gli operatori radar legati in qualche modo a Ustica, si sono segnalati diversi altri decessi sospetti fra suicidi e incidenti stradali. Almeno tredici, secondo la ricostruzione del giudice Priore. Fra questi il capitano Maurizio Gari, stroncato da un infarto ad appena 32 anni nel 1981. Era il responsabile della sala operativa di Poggio Ballone, dunque insieme a Dettori la notte di Ustica. «Quando babbo tornò dal suo funerale era distrutto – racconta la figlia dell'ufficiale di Pattada, Barbara –. Mia madre cercò di consolarlo, ma lui le rispose dicendole che era toccato prima a Maurizio e che poi sarebbe stato probabilmente il suo turno».

LA RICERCA DELLA VERITÀ

Nel 2016, la famiglia Dettori insieme all’associazione antimafia “Rita Atria” ha presentato un esposto giudiziario chiedendo la riapertura delle indagini sulla morte del radarista, ipotizzando l’omicidio. L’accusa si fondava sui «vuoti investigativi non chiariti», come l’assenza di autopsia approfondita e rilievi tossicologici sul corpo della vittima e le incongruenze nei racconti degli inquirenti. La Procura di Grosseto ha dunque riaperto l'inchiesta, nuovamente archiviata nel 2021.

Ma lo stesso gip di Grosseto Marco Mezzaluna, pur ritenendo che «il decesso del Dettori sia da attribuire ad un gesto suicidario senza responsabilità alcuna di terze persone», ammette che «verosimilmente la sera del 27 giugno 1980 il Dettori, che era in servizio a Poggio Ballone, è stato testimone diretto dei fatti che portarono all'abbattimento del Dc9 Itavia». Per il gip, «il peso di tale segreto ed il conseguente stress lavorativo nonché la lontananza dalla famiglia nel corso della missione in Francia, devono aver negativamente inciso sul suo già precario equilibrio psichico e lo hanno portato a suicidarsi».

A oggi, la vicenda di Dettori resta una ferita aperta: il suo ruolo come testimone attivo al radar, le dichiarazioni inquietanti, il mistero dei suoi acciacchi fisici dopo la missione in Francia, il ritrovamento del cadavere alimentano una narrazione dolorosa e controversa. La battaglia della famiglia Dettori è un tassello significativo della vicenda Ustica, in cui la ricerca delle responsabilità si intreccia con le ombre dei depistaggi, delle menzogne ai vertici dello Stato e dell’assenza di verità per troppe vittime collaterali.