È di ieri la notizia che tutti sappiamo: a un tiro di schioppo da casa nostra si è consumata la più grave tragedia dei popoli migranti dal Dopoguerra a oggi. Di fronte a un dramma di queste proporzioni, due sono le reazioni più facili: abbandonarsi alla facile commozione, lasciandosi travolgere da una valle di lacrime, da un lato; dall’altro, il cinismo più bieco, magari condito con vergognose affermazioni razziste. Entrambe, sono soluzioni da rigettare. Nel nostro piccolo, ognuno di noi deve esibire riflessi pronti, per riprendersi immediatamente dalla botta che ci ha stordito.

Soffermarci con attenzione su Terraferma  è già qualcosa; riuscire, nonostante facciano di tutto per anestetizzarci le coscienze, a creare un’empatia con le storie dolenti raccontate dal regista Emanuele Crialese, già questo possiamo considerarlo un gesto di civiltà di cui –almeno in parte- ritenerci soddisfatti. Lo stesso Papa Francesco si è accostato a Lampedusa con l’umiltà di chi è cosciente che nessuno, nemmeno lui che è vicario di Cristo, può trovare una spiegazione razionale a tutto questo dolore; lo spettacolo indecoroso di una povertà che spinge a qualsiasi cosa, perfino a compiere delle traversate disperate è un mistero insondabile perfino per il Papa. Probabile che l’allora cardinale Bergoglio abbia visto Terraferma, uscito nelle sale nel 2011.

Se lo ha visto, certamente lo ha apprezzato, perché è palpabile la sensibilità sincera di chi ha scritto e poi girato questo film. L’indifferenza galoppa, si sa, ma c’è chi con la forza delle immagini riesce ancora a farti riflettere, arrestando questa ignobile cavalcata del cattivo gusto. Terraferma ha fatto centro. Per un attimo, sembrava che fosse pure in odore di Oscar. Poi si sa come sono fatti gli americani: affezionati a questo stereotipo dell’italiano bonaccione, figurarsi se potevano condividere il crudo realismo di un regista impegnato. Ad ogni modo l’Oscar è una gloria di passaggio, transeunte. Ciò che realmente rimane è l’indiscutibile qualità di questo film. Il mare, questo Mediterraneo foriero di spunti letterari fin dai tempi di Omero, è il vero protagonista .

Gli altri, gli indigeni come i migranti sono i comprimari di una favola amara, dove il lieto fine è solo una speranza –almeno per chi ha ancora la forza di custodirla. Mediterraneo come ‘Giano bicefalo’: acque terse e fondali incantati, certo, ma anche mostro vigliacco che inghiotte vite umane; panorama che ti mangeresti con gli occhi, eppure dio altero e capriccioso, da cui è necessario difendersi strenuamente. Il rischio c’era, che il racconto scivolasse nella retorica del pathos, invece eccolo il talento asciutto di Crialese: niente isterie, niente melodrammi, solo una storia pulita e verosimile. Terribile il nodo che i lampedusani sono costretti a sciogliere dentro di sé, nell’arco di un’ora e mezza di film: seguire le severe direttive del governo italiano, che impongono il respingimento del migrante senza se e senza ma, oppure rimanere fedeli alla cultura dell’accoglienza,  che appartiene a loro da tempo immemore?

Facile per noi spettatori esibire un buonismo di facciata, stigmatizzare l’atteggiamento esitante di questi pescatori, di cui osserviamo le mosse dentro lo schermo. La verità è che pochissimi tra di noi sarebbero capaci, in un frange