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A Bari Sardo, in Ogliastra, la farmacia di cui uno dei titolari è Paolo Usai, non è solo un posto dove si erogano medicine. Da qualche tempo è diventata anche il simbolo di una presa di posizione personale. Usai, che porta avanti l’attività di famiglia, ha deciso di non trattare più con alcune aziende farmaceutiche vicine al mercato israeliano. Un gesto che lui descrive come un modo per "esprimere solidarietà al popolo palestinese e non finanziare un apartheid/genocidio".
La scelta arriva in un periodo segnato da conflitti che hanno scosso l’opinione pubblica mondiale. L’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 ha fatto oltre mille vittime in Israele e centinaia di rapimenti. La reazione militare su Gaza, in corso da mesi, ha provocato un numero enorme di morti, più di 60mila, e feriti, con intere aree ridotte in macerie. Diverse organizzazioni per i diritti umani hanno denunciato gravi violazioni e parlano apertamente di crimini di guerra e di genocidio.
Dentro questo scenario, Usai ha preferito muoversi nel suo piccolo, scegliendo di non contribuire — neppure indirettamente — a un sistema che considera ingiusto. La decisione non è passata inosservata: tra i clienti della farmacia c’è chi lo appoggia senza riserve e chi invece pone delle domande. In questa intervista Paolo Usai racconta il suo percorso, la sua scelta, le difficoltà incontrate e le reazioni della clientela, offrendo anche uno spunto di riflessione su come le scelte individuali possano influenzare la realtà globale.
Innanzitutto, puoi presentarti? Parlaci un po' di te e del tuo lavoro.
"Mi chiamo Paolo Usai. Sono cresciuto qui, a Bari Sardo, ho studiato qui fino all'università e vivo nel mio paese. Lavoro in farmacia da sette anni: mi sono laureato nel 2018 e poco dopo ho iniziato a esercitare. Si tratta di un’azienda di famiglia, mio nonno era farmacista. I suoi genitori si erano indebitati perché lui era figlio unico e volevano dargli l’opportunità di studiare ed emanciparsi rispetto alla realtà di queste zone negli anni ’30 e ’40. Mia nonna, laureata in chimica, quando mio nonno è scomparso si è poi laureata anche in farmacia per poterla riscattare, all’epoca ci volevano due anni per poter ereditare l'attività, oggi soltanto sei mesi. Da lì la farmacia è rimasta in famiglia, è passata a mio padre e infine a me.
Lavorare in un piccolo paese ha i suoi vantaggi: in un centro di neanche 4mila abitanti ci si conosce tutti. Quello che mi piace di questo lavoro è essere un punto cruciale per la popolazione, soprattutto in una realtà in cui la sanità pubblica è devastata. La farmacia è il contatto più vicino per il paziente, anche solo per un consiglio o per aiutare nel modo possibile. Lo faccio per un’empatia sociale, che oggi spesso manca, e ci tengo che la farmacia resti un presidio anche sotto questo punto di vista".
La tua scelta è, laddove possibile, di non trattare prodotti provenienti da aziende che sostengono l’economia israeliana.
"Esattamente."
Quando hai preso questa decisione?
"Io avrei voluto farlo sette anni fa, appena sono tornato in paese, perché già da studente avevo partecipato a diverse realtà rappresentative studentesche e il tema della Palestina mi era ben noto. Quando ho iniziato a lavorare, però, ho dovuto capire come rapportarmi al fatto di avere tra le aziende con cui collaboravamo anche società israeliane, o che avevano avuto accordi di espropri di territori palestinesi con Israele per la costruzione di loro sedi.
Con gli anni ho pressato sempre più mio padre, l’altro socio della nostra farmacia, per chiudere i rapporti con l’azienda principale israeliana. Lui, che si informava principalmente attraverso quotidiani e telegiornali e avendo anche consolidato negli anni i rapporti con diversi rappresentanti, era meno deciso nel compiere questa scelta. Gli ho però mostrato informazioni tramite social, giornali online e i profili social degli stessi giornalisti palestinesi, facendogli vedere ciò che accade effettivamente a Gaza e in Cisgiordania. Alla fine ha condiviso la decisione di troncare i rapporti. Mi ha chiamato una sera: io ero a Cagliari, e ho detto: “Ah, ok. Bà, grazie, davvero.” Ho iniziato a piangere, non me lo aspettavo così all’improvviso e non mi aspettavo una così repentina presa di coscienza, messa in discussione e presa di posizione.
Adesso abbiamo chiuso i rapporti anche con altre due aziende che non sono propriamente israeliane, ma le cui sedi si trovano in territori palestinesi occupati e finanziano l’economia israeliana".
Nella pratica, senza fare nomi, come selezioni le aziende? Come capisci le origini, i collegamenti e quindi quali evitare?
"Mi sono informato sia tramite un’amica palestinese attivista a Cagliari, sia attraverso il BDS, un elenco aggiornato anche dopo il report di Francesca Albanese, che raccoglie tutte le aziende coinvolte. Ho controllato ogni cosa personalmente: lavoravamo con un’azienda israeliana e due che non erano israeliane ma avevano edifici nei territori palestinesi occupati.
Per l’azienda israeliana la scelta era più semplice: sono farmaci generici, quindi basta sostituirli. Le altre due aziende erano più complicate perché producono farmaci molto conosciuti. Il nostro compito in questo caso è non fare ordini diretti che finanzino direttamente queste realtà, bensì rifornirci dai grossisti, mantenendo solo la quantità minima necessaria richiesta dai clienti. La decisione finale, comunque, è sempre del paziente".
Hai riscontrato ripercussioni sul servizio pubblico che offrite ai clienti?
"No, praticamente nessuna. Alcuni pazienti anziani volevano continuare a usare i prodotti della stessa azienda per abitudine; in questi casi, glieli forniamo. La maggior parte delle persone invece era d’accordo con la scelta".
A livello di principio attivo, sarebbe possibile sostituire completamente la terapia con farmaci equivalenti?
"Assolutamente sì. Ci sono equivalenti con lo stesso principio attivo, stesso dosaggio e stessa modalità di assunzione".
Hai ricevuto critiche o messaggi di stizza?
"Sì, nei commenti ai post e tramite messaggi diretti sui social, anche su Facebook. Leggendo certi commenti e i profili di chi li scriveva, ho visto che si trattava di persone con visioni della società completamente opposte alla mia. Non me ne sono fatto un cruccio: erano in netta minoranza rispetto ai feedback positivi. Persone venivano in farmacia, turisti o chiamate dall’Italia, solo per ringraziarmi. Lì ho pensato: 'Il mio dovere l’ho fatto'".
Ultima domanda: un tuo pensiero sulla questione israelo-palestinese, collegato eventualmente a un appello ai cittadini e ai tuoi colleghi.
"Questo mondo può rivelarsi cattivo, ma non voglio che mi renda cinico. Dove lo Stato non opera o, peggio, finanzia un apartheid o un genocidio, il singolo ha comunque potere.
In una società capitalistica, il nostro potere purtroppo oggi è principalmente d’acquisto: possiamo boicottare certe realtà facendo scelte etiche negli acquisti. Non possiamo fare tutto, ma possiamo fare qualcosa in base alla nostra sensibilità. Il mondo sarebbe sicuramente un posto migliore se tutti facessimo un piccolo passo.
Viva la Palestina libera e viva la libertà di tutti i popoli oppressi".