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Un grido nobile che è la voce di un'isola

Una montagna durissima, la più impegnativa, forse, di questa edizione del Giro d'Italia e non tanto per le pendenze (media 7.5%, massima 14%) quanto per il peso dei ricordi che ammantano i suoi tornanti di un malinconico e struggente alone romantico. Il Montecampione è un massiccio della Val Camonica, si affaccia possente sul Lago d'Iseo dando le spalle alle nevi delle Alpi Retiche, laddove la Pianura Padana si inerpica imbizzarrendosi sulle cime più alte d'Europa.

Un grido nobile che è la voce di un'isola

Di: Redazione Sardegna Live


Una montagna durissima, la più impegnativa, forse, di questa edizione del Giro d’Italia e non tanto per le pendenze (media 7.5%, massima 14%) quanto per il peso dei ricordi che ammantano i suoi tornanti di un malinconico e struggente alone romantico.

Il Montecampione è un massiccio della Val Camonica, si affaccia possente sul Lago d’Iseo dando le spalle alle nevi delle Alpi Retiche, laddove la Pianura Padana si inerpica imbizzarrendosi sulle cime più alte d’Europa.

Quei cieli, quegli alberi, quei sassi spazzati dalla tramontana e testimoni da sempre di imprese epiche portate a termine da atleti stremati, ieri, ancora, hanno assistito all’ultima azione dell’uomo alla scoperta dei propri limiti estremi.

Un pomeriggio di passione per gli amanti di questa corsa che attraversa l’Italia nel fiorire di maggio, offrendo agli occhi del mondo le meraviglie del nostro stivale dal mare di Sorrento alle colline toscane, dalle architetture barocche di Catania alle guglie gotiche di Milano. Un pomeriggio, quello di ieri, dove il cuore ha battuto più forte perché memore di un altro magnifico giorno di ciclismo che vide filare insolenti e spregiudicate, lungo quei tornanti, le ruote di un’altra bicicletta: quella di Marco Pantani. Nella salita di Plan di Montecampione, il Pirata diede vita a uno dei duelli più memorabili per chi fino alla fine lo ha amato e ha sofferto con lui. A farne le spese, in quel 1998, fu il russo Pavel Tonkov che dovette arrendersi ai micidiali allunghi del romagnolo, impietosi e pungenti come le stoccate di uno schermidore spavaldo.

Oltre quindici anni dopo, su quel fiume di asfalto, si arrampica agile un giovane sardo di nome Fabio Aru, testardo e caparbio come il cuore del popolo di cui si fa interprete. Il suo urlo all’arrivo è la nobile voce di una terra intera, la Sardegna, incollata incredula davanti alla tv a fare il tifo per il suo primo figlio capace di lanciarsi all’eroica conquista di una tappa della corsa più bella. Il suo sudore, la sua fatica, i suoi pedali roventi sono il motore di un isola che ha sempre amato questo sport. Sulla cima di Montecampione, con i muscoli e i tendini tirati all’inverosimile, Fabio Aru ha tutta la baldanza e la gioia dei suoi 23 anni. La maglia rosa Rigoberto Uran taglia il traguardo dopo 42 lunghissimi secondi e il giovane scalatore sardo doma, oltre alle salite lombarde, la classifica generale piazzandosi in 4^ posizione alla sua seconda esperienza in carovana rosa.

L’ultimo chilometro della Valdengo-Montecampione è una rincorsa disperata al sogno di una vita. Fabio si volta nervoso e stupito: non c’è più nessuno dietro di lui. Si son seduti tutti. Non gli hanno saputo tener testa e vola, leggero come un angelo vestito di celeste, verso il traguardo che gli fa tremare la voce quando i giornalisti lo assalgono una volta messi i piedi a terra. “Ho ancora tanto da imparare, non è cambiato niente. È tutto come prima”. Non tutto, Fabio, non tutto.

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