Narratore attento e voce lucida del nostro tempo, Ciriaco Offeddu è tornato nei mesi scorsi in libreria con Istella mea, un romanzo intimo e insieme universale, in cui la memoria, il dolore e la ricerca di senso si intrecciano in una trama delicata e potente.

Nato a Nuoro nel 1948 e con una lunga esperienza internazionale nel campo del management e della comunicazione che lo ha portato a stabilirsi fra Singapore e Hong Kong, Offeddu affianca all’attività professionale una riflessione letteraria profonda, radicata nella sua terra d’origine ma capace di parlare al lettore globale.

ISTELLA MEA

L'autore, in questa intervista, ci guida alla scoperta del suo ultimo lavoro, nato da un’urgenza interiore. Istella mea è il racconto di una perdita, ma anche di un cammino di ricostruzione, in cui la scrittura diventa uno strumento per fare ordine nel caos emotivo e dare voce a ciò che spesso resta inascoltato. Un’opera che ci interroga sul senso della vita, sulle radici e sul misterioso legame tra chi resta e chi se ne va.

Il volume, edito da Giunti e per settimane in cima alle classifiche dei libri più venduti, è stato proposto per il Premio Strega 2025 con la seguente motivazione: «È un romanzo ambientato in una Sardegna rurale, brulicante di vita e di mistero, e in una Argentina tormentata dalla dittatura e patria di malinconici migranti. Due grandi personaggi femminili animano il romanzo, Jaja e Rechella, incarnazione delle due opposte polarità del femminile, una cupa e manipolatoria, l’altra generosa e solare. Offeddu offre un romanzo vasto, generoso, lontano dalle tonalità della autofiction e capace di scavare nel substrato ancestrale delle umane vicende».

«La sùrbile al centro del romanzo, più che una rappresentazione tratta dal folklore sardo è una vampira metafisica, vicino alle figure femminili più grandi del teatro greco. Lo scontro lungo una intera vita delle protagoniste ci pone di fronte a domande capitali ed eterne. Esiste un fato che ci determina o siamo liberi di costruire il nostro destino? Esiste un amore tanto grande da farsi “stella” che ci guidi lungo il cammino?».

Offeddu è protagonista in queste settimane di un tour di presentazione del libro che farà tappa a breve a Pattada (il 31 maggio) e Vimercate (il 7 giugno).

L'INTERVISTA

Lei è un manager internazionale con esperienze in vari settori. Come ha avvertito l'esigenza di esplorare la strada della scrittura?

«Ho sempre scritto qualcosa. Poi, attorno al 2011, ero a Hong Kong, ho seguito un master di letteratura e scrittura creativa che mi ha cambiato un po' la vita. Sono stati quasi tre anni di lavoro molto duro, con prestigiosi professori da tutto il mondo. Mi è piaciuto moltissimo, è stato pesantissimo ma molto appagante. Mi sono accorto che avevo realmente voglia di scrivere e di farlo approfonditamente».

Il realismo magico di Garcia Marquez, il fatalismo deleddiano, la dimensione ancestrale e mitologica della letteratura sarda sono un po' i modelli ai quali viene accostata la sua scrittura in genere. Si riconosce in queste connessioni?

«Il realismo magico per me non esiste. Sono nato e cresciuto in mezzo al soprannaturale, quindi non c'è niente di artificioso o studiato a tavolino nella mia scrittura. La magia ha fatto realmente parte della nostra vita in mezzo alle nonne e alle donne delle nostre comunità. Ho sempre cercato di evitare i cliché sardi. Bisogna uscire dalla ripetizione di quello che dice magistralmente Grazia Deledda, sono passati più di cent'anni».

In chi si riconosce allora?

«Mi sono ispirato, semmai, a Salvatore Satta e al suo Il giorno del giudizio, che per me, al di là della sardità, rimane un libro eccezionale, uno dei migliori del Novecento. Lì sì, ho trovato una musica che mi si confà. Per il resto no, non cerco di scrivere libri sardi, anche se poi sono ambientati in Sardegna».

Quella di Istella mea, in effetti, è una Sardegna che si apre al mondo e abbraccia una realtà diversa e lontanissima: l'Argentina.

«È la nostra vita. Tantissimi sardi sono andati fuori, poi tornavano e raccontavano storie di tante disgrazie cariche di nostalgia, su disterru. La nostra vita è stata segnata da partenze e ritorni, da parte nostra ma anche da parte di quelli che ci stavano vicini. Quella dell’emigrazione è un'esperienza collettiva fortissima, che ci ha provato in maniera incredibile. Eppure non ne parliamo».

Perché?

«Perché da noi non si parla di storia, l'abbiamo cancellata insieme ai suoi fenomeni. Però l’emigrazione ancora oggi continua, quindi dovremmo occuparcene più a fondo».

A proposito di magia, c'è un'immagine evocativa della sua infanzia che ricorda e che l'ha ispirata anche nella scrittura?

«Le mie due nonne erano entrambe predisposte per la dimensione soprannaturale, che generalmente era appannaggio delle donne. Però c'erano uomini che intervenivano per fare delle cose pratiche. Si chiamavano “omines chi iscudent”, cioè l'uomo che effettivamente vuole fare qualche cosa per risolvere una situazione».

Ricorda qualche episodio particolare?

«Senza tornare troppo indietro nel tempo. Appena tre anni fa, mia madre aveva 102 anni e soffriva per un fuoco di Sant'Antonio nell'arco sopraccigliare che le stava minando il nervo ottico. Abbiamo chiamato un guaritore di Oliena che, armeggiando con due pietre focaie, ha provocato delle scintille. Poi le ha riposte in tasca ed è andato via con queste parole: “Arrivederci, statevi bene perché è già passato”».

E poi?

«E poi, dopo due settimane di antibiotici e sofferenze, la sera stessa effettivamente il malessere è andato a scemare. Era finito tutto. Ma conosco e ho vissuto tante storie come questa. Ci sono energie difficili da spiegare, che però esistono».

Parlava di donne come depositarie di questa esperienza magica, è per questo che le donne sono spesso protagoniste dei suoi scritti?

«Prima di tutto, sebbene non sia politicamente corretto dirlo, sono cresciuto in un ambiente matriarcale. Le mie nonne erano le vere dominatrici, a capo della famiglia. Indirizzavano l'onore, gli studi dei figli. L'universo femminile mi è sempre piaciuto, mi ha incuriosito perché è molto vario, molto complicato. Questo è splendido da un punto di vista letterario perché più una cosa è ricca di nuance, più è interessante».

Come si inserisce il suo ultimo romanzo nella tradizione letteraria sarda?

«Semplicemente non si inserisce. Io cerco di non fare narrativa, come avviene oggi in Sardegna, ma di fare letteratura. Significa che provo a sforzarmi di più e dare alla luce un prodotto più curato, più generoso, più ricco di personaggi e storie. Detto ciò, oggi non vedo realmente una scuola sarda nel mondo della letteratura».

Come vede, invece, lo stato di salute della cultura nuorese che ha segnato un'epoca e oggi sembra sfiorire?

«Tutte le civiltà nascono, crescono, esplodono e poi muoiono. A Nuoro vi sono ancora individualità belle e forti, ma la città è decadente anche dal punto di vista culturale. C'è un'autoreferenzialità spaventosa, una tendenza all’appartenenza politica che alla letteratura non fa mai bene. La letteratura deve essere un mondo a parte, un terreno dove scrittore e lettore si incontrano e parlano di grandi temi, di libertà, non di politica».

Perché la letteratura sarda oggi sembra essere legata a una dimensione locale o percepita come periferica dal pubblico?

«Perché la “letteratura” sarda di oggi non è letteratura. Come anticipato, è una narrativa di consumo, alla moda, mediocre, di facilità. In questo momento non c’è una grande letteratura neppure in Italia. Le università estere non studiano niente di italiano dopo Calvino, figuriamoci quale attenzione possono riservare alla Sardegna».

La figura della sùrbile che domina la narrazione di Istella mea è solo leggenda o rappresenta qualcosa di più profondo e simbolico?

«Rappresenta intanto le donne che avevano poteri speculari rispetto a quelle che facevano del bene. La sùrbile, era una donna che diffondeva il male. La leggenda del sangue succhiato lascia il tempo che trova. Ma persone capaci di assorbire l'energia intorno a sé e bruciare tutto ciò che le circondava esistevano, ed esistono tuttora».

Che influenza ha avuto l'esperienza asiatica sulla sua scrittura e sul suo modo di vedere il mondo?

«È stata forte perché intanto mi sono confrontato con un'altra religione, il confucianesimo, e il suo portato sociale e culturale. Quindi, per esempio, la cura della famiglia, che rispecchia per certi versi quella che era la Sardegna di un tempo. E poi nel modo di affrontare la vita, il fatto di essere forse più sereni, più pragmatici, e non cupi e sconvolti dal senso di colpa come siamo noi occidentali».

Se dovesse scegliere una sola immagine o una frase da consegnare al lettore di Istella mea?

«Forse il padre costretto ad ammazzare un asino. Perché c'è tutta la fine di una cultura agropastorale e di una civiltà, quella sarda, i cui figli hanno affrontato in maniera abbastanza impreparata il nuovo mondo. Un passaggio che ha generato una crisi ancora in corso. Dunque trovo quella scena molto emblematica».