Sullo sfondo dell’omicidio avvenuto nell’operosa cittadina mineraria di Carbonia, c’è un presunto giro di ricatti sessuali.

Carbonia, città mineraria nel Sulcis, in Sardegna, alla fine degli anni Ottanta contava circa 35mila abitanti, molti dei quali impiegati nell’industria del carbone. Era una cittadina tranquilla sul mare, con le sue villette a due piani, le strade dove il traffico scorreva sempre regolare, dove si suonava il clacson solo se necessario e i ragazzi uscivano la sera senza timori.

Gisella
Gisella, 16 anni, studentessa dell’Istituto Tecnico, doveva invece rispettare le ferree regole della nonna Gina alla quale era stata affidata dal padre insieme a sua sorella minore Tiziana, di un anno più giovane. Gisella era insofferente alla severità della nonna paterna e ai suoi modi asciutti; soffriva della distanza di papà Gisello, camionista, che viveva da solo in un appartamento poco lontano e dell’assenza di sua madre, che li aveva lasciati qualche anno prima lasciando la custodia delle figlie all’ex marito.

La scomparsa
Una sera di giugno del 1989, come era solita fare, Gisella si intrattenne con gli amici fino a sera in via Napoli. Alle 20 circa li salutò girando per via Asproni, diretta verso casa. Al contrario delle altre sere non appariva ansiosa di tornare, come se non temesse la punizione della nonna per eventuali sbavature sull’orario di rientro. Fu proprio nonna Gina, qualche ora più tardi ad avvertire il figlio che Gisella non era rincasata.

La telefonata
L’anziana fermò Salvatore Pirosu, un vicino di casa disoccupato che le donne trovavano sempre disponibile quando avevano bisogno di un passaggio in auto e si fece accompagnare a casa del figlio. Quella notte nessuno dormì. L’indomani a casa di Gina arrivò una strana telefonata: “Gisella è con noi, sta bene, andiamo in vacanza per un mese”. La sedicente amica non convinse nessuno: mai e poi mai una ragazza di 16 anni avrebbe potuto passare del tempo lontana da casa senza permesso. Poche ore dopo la nonna materna, Rosanna Zucca, titolare di una pasticceria a Iglesias, ricevette una telefonata dello stesso tono.

Il ritrovamento
Il 7 luglio 1989, dopo ricerche a tappeto fra i nuraghi e le gli alberi del Sulcis, è ancora una volta un’anonima voce femminile a portare i carabinieri nelle campagne di Punta Trettu. Dopo aver ispezionato rovi e cespugli, i vigili del fuoco trovano un corpo femminile, nudo, bianco, sul fondo di un pozzo. Gisella Orrù, ragazza-bambina che non aveva il permesso di tornare a casa tardi la sera era stata uccisa con uno spillone nel cuore.

Una strana catena di morte
Nella tranquilla Carbonia il pensiero va immediatamente a un altro fatto inquietante: la notte della scomparsa di Gisella, Angelo Canè, 40 anni, pastore con il vizietto del voyeurismo, era stato ucciso e gettato in mare a pochi passi da dove sarebbe stata trovata morta Gisella. Aveva visto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere? Nelle strade della cittadina del carbone, un’altra morte sospetta viene collegata al caso di Gisella.

Solo un mese prima della scomparsa della ragazzina, Liliana Graccione, 16 anni, compagna di scuola di Gisella, si era tolta la vita bevendo stricnina, un potente veleno usato per debellare topi che porta al decesso tra sofferenze indicibili. A completare il quadro, pochi giorni dopo la scoperta del corpo nel pozzo, Sabrina, 16 anni, anche lei di Carbonia, ingerisce candeggina nel tentativo di togliersi la vita.

Le indagini
Il pubblico ministero Alessandro Pili, insieme all’allora giudice istruttore Sandro Lener, indagano sui possibili collegamenti tra gli eventi. Intanto l’autopsia determina che la morte della ragazzina è avvenuta presumibilmente il giorno stesso della scomparsa. Non è possibile dire se abbia subito violenza sessuale. Gisella, però, come dice il contenuto del suo stomaco, aveva anche mangiato (carne e patate).

Ancora telefonate
È sempre la misteriosa voce femminile ad aiutare, dalla cornetta del telefono, le indagini. La donna indica una Fiat 131 color vinaccia parcheggiata nella via Ospedale come l’auto di proprietà dell’assassino e descrive una Fiat 126 bianca, sulla quale sarebbe stata vista salire Gisella. Scattano le manette per quattro persone: Salvatore Pirosu, ‘zio Tore’, il vicino di casa che la notte della scomparsa fu fermato da nonna Gina, il meccanico Licurgo Floris, Giampaolo Pintus, tossicodipendente e Gianna Pau, detta ‘Jeanette’, prostituta.

La confessione
È lo stesso Pirosu a confessare, additando Pintus e Floris come esecutori materiale del delitto. Sarebbe stato Pirosu a prelevare Gisella con un pretesto e a condurla nel boschetto prossimo alla spiaggia, in località Matzaccara, dove gli altri due uomini avrebbero tentato di avere rapporti sessuali con lei. Gisella li avrebbe respinti fuggendo via nuda, allora i due – nudi a loro volta – l’avrebbero inseguita, colpita alla testa e poi finita con una stilettata al cuore. Pirosu e Gianna, secondo la ricostruzione, non avrebbero preso parte all’omicidio, per occultare il quale gli stessi assassini avrebbero guidato nudi per 8 chilometri prima di scaraventare il corpo nel pozzo.

I dubbi
Il caso sembra risolto, ma il papà di Gisella non crede a una sola parola di quel gruppo di ‘rubagalline’ e balordi con i quali mai e poi mai sua figlia si sarebbe accompagnata. Effettivamente, sottoposta a verifica, la versione di Pirosu non quadra: quando i carabinieri lo accompagnano sulla scena del crimine da lui indicata, alla stessa ora, l’uomo si accorge che la visibilità è zero, nel buio non è possibile neanche camminare tra i rovi, altro che correre inseguendo una ragazzina. Il tratto di strada da percorrere fino al luogo dell’occultamento poi, è abitato e popolato di sera, guidare nudi con un cadavere grondante sangue nel bagagliaio è impensabile.

Sono gli stessi esami scientifici, del resto, a confermare l’inconsistenza di quella versione. Nei capelli di Gisella non viene trovata traccia di sabbia nel luogo indicato, nel suo stomaco, inoltre, erano presenti tracce di un pasto a base si carne e patate, pietanza che si consuma a tavola. Dunque qualcuno, verosimilmente Pirosu, doveva aver portato Gisella a cena in un posto che lei riteneva sicuro. Lì qualcosa è sfuggito di mano, forse Gisella si è ribellata a un tentativo di violenza e per questo è stata giustiziata con un oggetto (mai ritrovato) affilato e sottile: uno spillone, ma anche un ferro da calza. O uno spiedino da carne.

La verità processuale
Tre gradi di giudizio condannano Pirosu e Floris, che continuerà ostinatamente a proclamare la sua estraneità ai fatti, mentre viene stralciata la posizione di Pintus (che muore di AIDS poco dopo) e della Pau. Nelle aule giudiziarie il caso finisce lì, per gli avvocati di parte civile le cose sono andate diversamente da come racconta ‘zio Tore’.

Vox populi
Vox populi racconta che nella tranquilla Carbonia ci fossero personaggi in vista che organizzavano festini a base di droga e sesso nelle loro sontuose ville. Orge con scambi di coppia e giovanissime ospiti, alcune minorenni. In questo contesto una ragazza come Gisella potrebbe essere stata avvicinata da personaggi trasversali al mondo della potente imprenditoria di Carbonia e a quello della droga e della prostituzione. Un uomo come Salvatore Pirosu, per esempio, che, in quanto vicino di casa avrebbe potuto facilmente ottenere la fiducia della ragazza e portarla a una cena in una casa elegante da persone che avevano manifestato il desiderio di conoscerla. Di questa versione era praticamente certo l’avvocato di parte civile, Michele Schirò: “Non credo che il livello di coinvolgimento sia di personaggi come Licurgo Floris”. “Si parla di notabili che da tempo avevano messo gli occhi su quella bella ragazza”.

Un altro suicidio
In questo contesto si spiegherebbe anche il suicidio della povera Liliana Gracione, che pochi giorni prima di morire incontrò due adulti in casa. Disse alla mamma che dovevano venderle della biancheria, ma forse lo scopo della loro visita non era vendere pigiami e slip, ma ricattare la ragazza. Nonostante i dubbi i due soli condannati sconteranno la loro pena. Licurgo Floris muore suicida nel 2007, approfittando di un trasferimento di carcere per impiccarsi. Aveva gridato al depistaggio quando i carabinieri avevano ‘perso’ una delle prove, la bobina di ‘Revox’ contenente la telefonata che segnalava la presenza della vittima sulla ‘126′ bianca di Pirosu

Il sopravvissuto
Pirosu, che scontava ventiquattro anni, è invece uscito dal carcere in anticipo grazie all’indulto. Trasferito in una casa famiglia, a Iglesias, è scomparso pochi giorni dopo la scarcerazione. Voci di paese dicono che è stato ‘fatto scomparire’ dagli assassini di Gisella, secondo altri è semplicemente sparito con ‘l’incasso’ promesso per essersi preso la colpa di quel delitto.

L’epilogo
Oggi della storia di Gisella resta solo il vecchio pozzo completamente coperto da cespugli e una lettera:

Ho paura di finire come Gisella. Anch’io come lei sono cascata fra gente che mi tiene saldamente in pugno. Ho la possibilità di inchiodare tanta gente e perfino due degli assassini di Gisella. Sono disposta a confessare e a denunciare se anche altre ragazze faranno lo stesso. Attendo attraverso il giornale risposte e adesioni… poi qualcuno ci farà incontrare tutte. Non posso firmare. Scegliete voi un nome da darmi. Fate presto.

Il disperato appello di questa ragazza, certificato come autentico da una perizia grafologica, non ha mai portato alle adesioni e confessioni auspicate. Se a Carbonia esistette mai un giro di prostituzione minorile e se alcune ragazze ne furono vittima, come Gisella, non resta che sperare che siano loro a farsi avanti. O la misteriosa telefonista.

(fonte Marco D’Angelo – Limemagazine)