In Sardegna

“In Sardegna fabbriche di morte”. La regista Lisa Camillo racconta il lato oscuro dell'Isola

La regista, scrittrice e antropologa sardo-australiana si racconta a Sardegna Live, dopo il successo di "Balentes" e il nuovo documentario "Sardinian Factory of Death", in cui denuncia la produzione di armi da guerra nell'Isola: "La nostra terra fucina di morte, è ora di dire basta agli invasori"

“In Sardegna fabbriche di morte”. La regista Lisa Camillo racconta il lato oscuro dell'Isola

Di: Giammaria Lavena


Una vita alla scoperta del mondo e della sua natura, dell’uomo e della sua coscienza. Un lungo viaggio lontano da casa, in Australia, alla ricerca di un futuro migliore. La saudade e il richiamo della terra madre; il ritorno nella sua amata Sardegna. Lisa Camillo, regista, scrittrice, antropologa, racconta il lato oscuro di un’isola ben diversa da come tanti anni prima l’aveva lasciata. Padre australiano, madre sarda, Lisa durante il lungo periodo di assenza dalla Sardegna ha lavorato a contatto con gli aborigeni: qui ha avuto modo di studiare nuove culture e di sviluppare punti di vista differenti, grazie ai quali ha maturato una nuova visione del mondo. Dal suo ritorno a casa l’antropologa ha sviluppato una serie di progetti incentrati sulla denuncia della produzione di armi nell’Isola, maturati nel documentario Balentes – I coraggiosi, prodotto nel 2018 e oggi disponibile online su Prime Video, tramite il quale racconta in voice-over questo controverso sistema. Balentes è un documentario-inchiesta, che denuncia la presenza di numerose basi Nato in Sardegna, mettendole in relazione con l’aumentata incidenza di tumori nella popolazione ed evidenziandone le devastanti conseguenze alla salute del territorio. Qui si dà voce ai parenti delle vittime dell’uranio impoverito (metallo radioattivo), in strazianti testimonianze intrise di rabbia e dolore, e ad esponenti politici e militari che da anni portano avanti la battaglia contro le industrie belliche sul territorio. 

Il recentissimo The Sardinian Factory of Death (La fabbrica sarda della morte), cortometraggio uscito sul canale Al Jazeera per la serie Close Up, disponibile anche su YouTube, prosegue sulla scia del primo documentario, incentrandosi tuttavia su una specifica vicenda. Racconta la storia di un gruppo di coraggiosi iglesienti che combatte per riconvertire la Rwm, una pericolosa fabbrica di armi di proprietà tedesca (Rheinmetall), e trasformare la loro povera regione in una fiorente e sana terra, grazie al loro marchio di qualità “WarFree, liberi dalla guerra”. Esplosivi, materie prime e ordigni finiti vengono fabbricati ed esportati per contribuire a guerre sanguinose, principalmente quella in Yemen. Il comitato di attivisti racconta la battaglia che da anni porta avanti e le difficoltà che essa comporta. Attraverso queste testimonianze la giovane regista porta all’attenzione del pubblico un tema quantomai attuale, raccontando a 360° l’intricato sistema alla base dei conflitti internazionali. 

Intervistata da Sardegna Live, Lisa Camillo ha raccontato cosa l’ha spinta a intraprendere questo percorso, fornendo una sua personale visione sullo stato attuale delle cose.

Trovo assurdo – sostiene – il fatto che la Sardegna, che offre tante altre possibilità, sia asservita a questo sistema che non ha niente a che vedere con noi sardi. Da sempre abbiamo patito l’assoggettamento degli invasori, ma le cose adesso devono cambiare.

Genitori che chiedono giustizia per i figli perduti, attivisti e associazioni pacifiche, esponenti politici. Su chi puntare per far sì che la denuncia sociale raggiunga le sedi interessate e che venga smossa la coscienza collettiva?

Penso che, principalmente, l’azione debba arrivare dalle comunità. Noi sardi dobbiamo sapere cosa succede nella nostra terra, perché molti non si rendono conto di quanto sia grave ciò che accade in Sardegna. Bisogna “educare” a tutto questo. Ho visto come i giovani hanno reagito a Balentes: durante la proiezione del documentario in giro per l’Isola venivano addirittura ragazzi in lacrime, pronti a fare qualcosa di concreto per la nostra terra. Il futuro deve essere in mano ai giovani: sono loro che devono prendere in mano la situazione. In tutto il mondo, dall’Africa all’Asia, dall’Europa al Sud America, i giovani stanno avviando campagne di sensibilizzazione su temi importanti. Ecco, penso che questa sia la chiave per venire a capo di una vicenda così delicata. È necessario arrivare sino al Parlamento europeo; noi ci stiamo provando, con Balentes, ma purtroppo la pandemia ha frenato il progetto. Da antropologa, lavorando nelle comunità aborigene, ho capito l’importanza di unire le persone, e per far ciò è necessario sfruttare gli strumenti mediatici a nostra disposizione nella maniera corretta. Speravo che Balentes potesse entrare nel curriculum scolastico, arrivare ai ragazzi giovani per far capire loro cosa succede. Sono i giovani i nostri futuri politici, i leader del mondo che verrà. Questa energia rinnovata può far sì che la vecchia classe politica, ormai da anni instaurata nel nostro sistema e causa dei mali che affliggono il nostro Paese, venga finalmente messa da parte lasciando spazio a una visione attenta e sensibile al territorio.

In un'epoca di aspri e sanguinosi contrasti politici internazionali, la frenetica corsa agli armamenti richiede un'altrettanto irrefrenabile produzione di armi. Come inquadrare il business delle armi in Sardegna in un più ampio scenario? Quanto effettivamente è importante la presenza di fabbriche e poligoni nell'Isola per la macchina di produzione bellica?

La Sardegna e il Sudafrica sono quelle che producono più armi per Rheinmetall, tra le tre multinazionali del settore più grandi al mondo. Dalla Sardegna quest’azienda ha un indotto economico enorme, e per questo non vogliono lasciare la presa sull’Isola. La Rheinmetall, tramite una politica detta ‘internalization’, sposta tutte le procedure all’esterno dei confini tedeschi, principalmente nelle comunità maggiormente povere. A detta loro, il trasferimento di queste fabbriche in Sardegna e in Sudafrica è stata “la trovata più geniale che abbiano mai avuto”, grazie al fiorente business scaturitone e alla facilità con cui le hanno instaurate. La produzione di bombe prosegue – non so quanto lecitamente – nella totale immobilità del sistema politico. Le persone che ho avuto modo di intervistare nel documentario si stanno attivando da anni per cercare un’alternativa. Per questo motivo hanno ricevuto numerose minacce, perché tanti lavoratori vivono al servizio di queste fabbriche. Ciò crea una situazione anomala, in cui l’economia viene “drogata” dalla stessa azienda che si è insinuata nel territorio senza chiedere il permesso. Racconto un aneddoto: durante le riprese mi è stato raccontato di un uomo dell’Iglesiente a cui era stato offerto un posto di lavoro alla Rwd. Lui ha rifiutato, e per cercare fortuna ha preferito abbandonare la Sardegna, costretto ad allontanarsi dalla famiglia. Non voleva sporcarsi le mani di sangue, e ha trovato conforto dai familiari stessi che hanno appoggiato la sua scelta. Quando è uscito il film mi è giunta una bellissima notizia: il comitato di riconversione “War free” aveva riportato a casa il concittadino assumendolo in una delle loro aziende. È questo che dovrebbero creare i politici sardi: alternative che mettano fine a questa economia devastante per il territorio e per la sua gente.

Cosa la spinge, personalmente, a portare avanti questa battaglia, con tutti i rischi che ne conseguono? Fino a che punto pensa - o spera - che il suo contributo possa essere utile alla causa?

Quando uno va via, molto lontano, vede le cose da prospettive diverse. Nel mio caso ho capito quanto mi mancasse la mia terra. Ciò che mi spinge a fare quello che faccio – nonostante insidie e pericoli – è la terra stessa, e la sua gente. Ci meritiamo una Sardegna migliore, un’isola prospera: non è possibile che, nonostante viviamo in un paradiso, tantissime persone siano costrette alla fame. Tutti i sardi che ho conosciuto in Australia hanno ottenuto risultati lavorativi importanti, grazie alla caparbietà che contraddistingue il nostro popolo. In qualche maniera, qua in Sardegna, le cose non vanno come dovrebbero, e non possiamo accettare tutto ciò. Ecco cosa mi spinge a lavorare in questa direzione: la rabbia per ciò che potrebbe essere e che invece, attualmente, non è. 

Progetti per il futuro? 

Ne ho un paio sempre legati alla Sardegna, si tratta di progetti positivi e divertenti. Uno guarda a un passato remoto dell’Isola, un altro sempre al passato, però molto recente. Attraverso questi vorrei raccontare un altro lato della Sardegna, quello turistico, di valorizzazione del territorio. Spero possano portare una pubblicità positiva e raccontare tutto ciò che di bello la nostra terra ha da offrire. 

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