L’ultimo affronto alla giornalista etiope, privata della libertà con la falsa accusa di terrorismo: visite limitate nel carcere in cui è segregata dal 2011.
Cinque anni di prigione (inizialmente 14 commutati poi in appello) solo per aver raccontato, attraverso i suoi articoli, le reali condizioni di vita in Etiopia. Come se non bastasse, ora le autorità carcerarie hanno imposto dei limiti sul numero delle persone che possono farle visita.
Reeyot Alemu è una donna molto coraggiosa. In un Paese, l’Etiopia, che detiene il poco onorevole primato di secondo stato africano con maggior numero di detenuti giornalisti (dopo l’Eritrea), la sua è una storia di eroismo diversa dalle altre: impegnata a realizzare resoconti precisi nei pochi media indipendenti rimasti, si è sempre rifiutata di autocensurarsi, non piegandosi mai al ricatto di chiedere scusa per aver detto  solo la verità.
Domenica scorsa la Alemu ha interrotto lo sciopero della fame  -proclamato mercoledì contro le restrizioni imposte dagli amministratori del carcere- ma ora si rifiuta di ricevere alcuna visita fino a quando verrà impedito a sua sorella più piccola e al fidanzato giornalista di parlare con lei. 
Tom Rhodes, consulente per l’Africa Orientale del Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ), è intervenuto oggi per denunciare questo ennesimo sfregio a una persona  innocente:  «Innanzitutto è una giornalista, non una criminale, quindi non è ammissibile che stia dietro le sbarre. Ora si aggiungono le visite vietate: chiediamo alle autorità etiopi di porre fine a questo scandalo».
Oltretutto, questo trattamento inumano va contro il dettato dellaCostituzione etiope, che si esprime in questi termini: “Tutte le persone devono avere la possibilità di comunicare con, e di essere visitate dai loro coniugi o partner, parenti e amici, consiglieri religiosi, avvocati e medici"
I funzionari non hanno fornito una spiegazione ufficiale per questa loro decisione, ma sembra che non abbiano digerito un suo articolo pubblicato il mese scorso dall’