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Alla fine, ha avuto ragione lui. “The american Caesar”, per gli amanti dell'enfasi e della drammaticità, il “tycoon”, per la stampa, il “re del caos”, per i detrattori. Donald Trump è tornato di prepotenza, quasi letteralmente, affermando la sua leadership a suon di scomposte boutade e clamorosi eccessi, chiassose provocazioni e carismatiche sfide. Pur risultando più divisivo e polarizzante che mai, è riuscito a riunire attorno a sé un elettorato sorprendentemente eterogeneo e trasversale, aumentando nettamente i consensi fra le donne (nonostante le posizioni antiabortiste) e addirittura tra le minoranze etniche come afroamericani, asiatici e latinos, storicamente distanti dalla sua politica e non di rado bersaglio delle sue stoccate.
Un risultato elettorale che, specularmente, inquieta ed esalta le diverse anime di un Paese-continente in un contesto storico i cui sviluppi appaiono quantomai complessi da decifrare. Al di qua dell'oceano, osservatori e analisti si affannano a mettere in ordine i tasselli di un puzzle difficile da comporre in maniera precisa. Ne abbiamo parlato con Francesco Costa, vicedirettore de Il Post ed esperto conoscitore della politica e società americana che, da oltre un quindicennio, racconta fornendo un punto di vista originale con podcast, documentari e pubblicazioni di successo.
Una provocazione che parte dalle suggestioni proposte da certa nostra stampa. Ora che ha vinto Trump, gli Usa sono già diventati un posto peggiore di ieri?
«Questo dipende molto dall'idea di ciascuno. Io non sono tra chi pensa che nelle elezioni ci sia chi ha tutta la ragione e tutto il torto. Le elezioni sono fotografie di una situazione che c'è già e che il voto ci permette di certificare. Gli Usa non sono diventati peggiori dopo la vittoria di Trump, criticità ce n’erano da prima».
Che quadriennio si prospetta?
«Bisognerà capire che direzione prenderanno gli States nei prossimi quattro anni. Questo è un Paese che cambia molto in fretta, a prescindere dai presidenti, e a volte anche in modi diversi da quelli che la politica pensa di innescare. Ho molti più dubbi che certezze rispetto alla stagione che arriva».
Di recente ha osservato che gli elettori di Trump sanno che spesso esagera e non si scandalizzano per le sue uscite a vuoto. L’impressione che ci sia qualcosa di farsesco nel fatto che la più grande democrazia del mondo si fondi su una tale teatralità è dovuta all’incapacità di capire una sensibilità tutta statunitense?
«In realtà loro la teatralità la imputano, semmai, al modo in cui si comportano i politici di professione che cercano la risposta perfetta e calcolano ogni intervento sulla base di ciò che dicono i sondaggi, di cosa conviene e non conviene. In Trump, nei suoi eccessi e anche nei suoi aspetti più cringe, una parte degli americani vede qualcosa di autentico e sincero che ispira fiducia».
Gli spari a Trump avrebbero rappresentato uno shock difficile da affrontare per qualsiasi nazione. Invece è parso come se gli americani siano ormai capaci di metabolizzare rapidamente picchi di violenza così alti.
«È vero. Negli Usa ci sono stati quattro presidenti uccisi nel corso del loro mandato e altri che hanno subito attentati come Trump, Reagan, Clinton, Obama. È il riflesso di una violenza che è presente in modo estenuante in buona parte della società. Il numero di morti per armi da fuoco e la violenza che la popolazione è in grado di tollerare sono molto più alti di quanto accada in qualsiasi altro paese sviluppato».
Si è parlato di Italia come laboratorio in virtù dei rapporti fra l’universo Trump, Elon Musk e i nostri attuali esponenti di governo. Se così fosse, sarebbe un'opportunità o un rischio?
«Elon Musk ha aziende che producono beni e servizi preziosissimi per un mondo che cambia: dalle auto elettriche con le tecnologie più avanzate, ai satelliti che portano la rete senza complicati lavori di installazione di cavi, agli impianti neurali, ai tunnel. Parlare con le aziende migliori del mondo nei loro settori all'Italia non può che essere utile. C'è una cosa in più però: adesso Musk, oltre a essere l’uomo più ricco del mondo, ha anche messo le mani di fatto sul governo degli Stati Uniti e ha una capacità di spesa sconfinata».
Questo cosa comporta?
«Kamala Harris ha raccolto in tutta la campagna elettorale un miliardo di dollari, una barca di soldi. Elon Musk ne ha spesi 44 per il capriccio di comprarsi Twitter. Oggi non è soltanto un imprenditore di enorme successo, ma ha un ruolo tale che ogni relazione con lui diventa particolarmente delicata: parlarci è doveroso, ma occhio!».
Sarà davvero il presidente ombra?
«Sicuramente lo vuole fare e lo sta facendo. Non è una mia tesi, lo leggiamo: partecipa alle telefonate di Trump con i leader internazionali, si è trasferito nella residenza di Trump. Dice la sua su tutte le nomine e lo fa con l'influenza che è, appunto, quella di uno che può spendere di tasca propria per un capriccio 44 miliardi, 44 volte la cifra che ha raccolto la candidata del Partito Democratico».
La questione dazi è un altro punto all'ordine del giorno in Italia, cosa rischiamo?
«Siamo a rischio e in difficoltà perché siamo un Paese la cui economia si basa sull’export. Siamo uno dei primi esportatori al mondo ed esportiamo i nostri beni in primis Germania, che attraversa un momento difficile, e in secondo luogo negli States. Ma un altro tema problematico che ci lega all’America è la spesa militare, rispetto alla quale Trump chiederà una maggior partecipazione. Sarà interessante capire su cosa il governo italiano sarà in grado di negoziare e su cosa, invece, dovrà cedere».
Obama è il grande sconfitto di questa tornata elettorale?
«Non credo. Obama le elezioni le ha vinte due volte, peraltro affermandosi in Stati che oggi per i democratici sono completamente off-limits. Ha partecipato all’ultima campagna elettorale, ma non credo sia il grande manovratore. Ha spinto, come il resto del partito, perché Biden si ritirasse dopo il dibattito disastroso con Trump, ma non c'era davvero altra strada per i democratici».
Sfilata di star e influencer pro Harris. Difficile pensare che nessuna celebrità abbia votato per Trump, eppure non si sono registrati endorsement da urlo. Perché c'è questo pudore nel dirsi di destra?
«C'è pudore nel dirsi di idee molto diverse da quelle della grande maggioranza intorno a te. Nel mondo di Hollywood i progressisti e le persone di sinistra sono la grande maggioranza e hanno un atteggiamento molto ostracista e poco accogliente nei confronti di chi non la pensa come loro. Una situazione simile, ma al contrario, esiste nell'industria del petrolio. Le persone vivono in comunità sempre più omogenee sul piano politico. I democratici vincono le elezioni a Washington, la capitale, con il 94% dei voti. In una città in cui il 94% vota lo stesso partito è difficile dire che hai idee diverse da quelle della maggioranza».
Qual è stato l’asso che ha permesso a Trump di vincere?
«Ha vinto per tanti motivi diversi, ma non si può che partire dal fatto che tutti i partiti al governo negli anni dell'inflazione nel mondo hanno perso male o sono in pessime condizioni, da quello britannico a quello tedesco, a quello francese, a quello portoghese, a quello giapponese, a quello canadese. Persino il governo indiano, che è quasi in autocrazia col primo ministro Modi, ha avuto un risultato elettorale terribile. L'inflazione, sul piano del consenso, è forse la cosa peggiore che può capitare a un politico perché colpisce tutti».
Cosa, invece, non ha funzionato in casa democratica e come è stato possibile arrivare al pasticcio Biden?
«Quando il presidente vuole candidarsi, non può essere costretto da nessuno a non farlo. Il pasticcio Biden nasce dal suo venir meno alla promessa che avrebbe fatto un solo mandato. Quando ha voluto ricandidarsi, il suo staff ha nascosto all'opinione pubblica il suo evidente invecchiamento, gli ha fatto fare poche interviste. Un problema diventato inaggirabile dopo il dibattito del 30 giugno, unica circostanza non coreografata dallo staff. Da lì gli eventi sono precipitati e Harris ha dovuto fare la campagna elettorale più breve di sempre».
Il dibattito in Usa non era forse mai stato così polarizzato, è davvero possibile che un Paese come gli Usa non avesse niente di meglio da proporre agli elettori di quanto messo in campo in questi anni da una parte e dall'altra?
«Il Paese ha molto di meglio da proporre, però è anche una nazione democratica. Chiunque avesse voluto candidarsi avrebbe potuto concorrere alle primarie e nessuno glielo avrebbe impedito. Sono stati gli elettori a scegliere i due candidati. Stavolta, poi, nessuno tra i democratici voleva sfidare il presidente uscente perché sarebbe stato suicida per loro, ma, di nuovo, qui la responsabilità sta in Biden. Per quanto riguarda Trump, c’è un grande legame fra lui e le istanze repubblicane e visto il suo dominio della scena mediatica non è facile da battere».
La guerra è lo scenario più caldo fra quelli che si aprono al nuovo presidente. Come riuscirà a incidere nell’evoluzione dei conflitti in Ucraina e Medio Oriente?
«Difficilissimo fare previsioni su questioni così imprevedibili. Trump non ha voglia di impelagarsi in problemi che non riguardano la priorità strategica degli Stati Uniti, cioè la rivalità con la Cina. Cercherà sicuramente di ridurre l'impegno del suo Paese. Questo disimpegno porterà alla conquista dell’Ucraina da parte della Russia? Non è detto, magari porterà l'Europa a tirare fuori più soldi e diventare più protagonista. In Medio Oriente si registrerà un’ulteriore escalation? Magari, invece, si troverà una nuova stabilità ai danni dell'Iran. Inutile fare calcoli. Trump vuole occuparsi principalmente di Asia e Cina».
Il modello occidentale appare sempre più in crisi, è così oppure c'è ancora un futuro per i valori e gli equilibri che abbiamo conosciuto?
«Dovremmo metterci d'accordo su cosa si intende per crisi del modello occidentale. La Cina passa un momento di straordinaria difficoltà. Da quando la pandemia è finita, con una quantità di morti ancora sconosciuta, oggi registra una disoccupazione giovanile così alta che il governo ha smesso di fornire i dati. Il sistema immobiliare è una bolla, il Paese non riesce a sostenere più una crescita economica vera non avendo consumi ed essendo finita per lo Stato la possibilità di drogare l'economia con i soldi pubblici. Sul piano politico quali sarebbero i sistemi alternativi a quello occidentale? Gli Stati Uniti hanno un’infinità di problemi, ma dall'altra parte non c’è un modello che in questo momento faccia parlare per i suoi grandi risultati».
C’è chi parla di un secondo Trump più incattivito del primo dopo le vicende giudiziarie e personali che lo hanno riguardato in questi anni.
«Il secondo Trump è innanzitutto più stanco e più vecchio. Sarà il più anziano presidente di sempre a prestare giuramento. La presidenza degli Stati Uniti è stata logorante anche per leader molto più giovani. Poi sì, potrebbe avere un desiderio di vendetta o anche soltanto di non ripetere quelli che pensa siano stati gli errori del suo primo mandato rispetto a scelte di governo, persone da assumere, rischi da evitare. Sono entrambi elementi inquietanti».
È possibile prevedere il profilo di chi raccoglierà la sua eredità al termine del secondo e ultimo mandato?
«Musk, essendo nato in Sudafrica e non potendosi candidare nemmeno volendo, si è giocato la carta del presidente ombra. JD Vance, oggi, è sicuramente quello messo meglio. Però, di nuovo, in quattro anni cambiano tantissime cose. Nel 2004 Bush otteneva alle presidenziali una vittoria talmente netta che si pensò che stesse iniziando un momento di grande cambiamento della politica americana. I democratici si sarebbero dovuti spostare al centro e cercare qualcuno che parlasse all'America profonda. Quattro anni dopo, in realtà, vinsero con un candidato nero che si chiamava Hussein di secondo nome».