Inutile girarci intorno: è mai possibile che un militare, nel caso il carabiniere omicida-suicida che ieri ha sterminato la propria famiglia prima di togliersi la vita, possa compiere una così tragica sequela di sangue senza che nessuno, tra quelli che avrebbero potuto fare qualcosa, abbia capito che l’uomo non andava lasciato solo, per la sua salute e quella dei familiari (bene primario)? Soprattutto, in considerazione del fatto che la strage è stata la conclusione di un inferno familiare più volte segnalato dalla donna che ora è ricoverata in gravissime condizioni dopo i colpi di pistola del marito.

A ciò, si aggiunga che nelle Forze Armate esistono delle procedure che periodicamente, o comunque tutte le volte che si rende necessario, per verificare l’efficienza psicofisica dei militari. Probabilmente, oggi, come sempre a tragedia consumata, si può dire soltanto che qualcosa non ha funzionato come avrebbe dovuto. Così come non sono scattati quei meccanismi di controllo socio-sanitario adeguato che probabilmente ci sarebbero dovuti essere in diversi, troppi, altri casi di tragedie familiari, anche se non commesse da militari, consegnati alle cronache in un passato neanche troppo lontano. Certo, il caso del carabiniere, stordisce le coscienze in misura ancora maggiore perché c’era un’arma nelle mani di chi, come tragicamente dimostrato, non aveva più l’idoneità per averla.  

Purtroppo, è amaro dirlo, specie in un giorno di lutto in cui deve prevalere il silenzio, il rispetto per le vittime e la riflessione di tutti, ma ancora una volta la constatazione è sempre la stessa: non manca nel nostro Paese la disciplina legislativa familiare, sociale e comunitaria riferita alla salute dell’individuo; non c’è, piuttosto, e questi episodi tragici stanno lì a ricordarcelo in tutta la loro luttuosità, la capacità, quando non il coraggio e la sensibilità per applicarla.