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Prosegue senza sosta, a Ghilarza, l’International Gramsci Festival. Ieri la rassegna ha visto protagonisti il presidente emerito della Corte Costituzionale, Giovanni Maria Flick, e l’ex attivista dell’Ira, Sam Millar.
L’ex ministro della Giustizia è stato protagonista di un convegno dal titolo “Costituzione e carcere". "Dignità e speranza sono le due colonne d’ercole con le quali deve essere trattato il tema del carcere”, queste le sue parole.
“Chi dice di volerla cambiare, spesso non l’ha nemmeno letta – ha dichiarato il giurista -. La legge non ammette ignoranza. Se da un lato anche il peggior delinquente una volta condannato ha diritto di vedere rispettata la propria dignità, dall’altro, se viene meno la speranza di un futuro libero, si passa dalla pena alla tortura”.
«Credo che nel momento in cui si riapre la casa di Gramsci, una persona che in carcere ha vissuto e ha sofferto, ed è morta non appena è uscita, in nome della libertà e delle proprie idee – ha concluso Flick – sia importante riflettere su queste tematiche per capire quanto oggi sia urgente riaprire un dibattito sul carcere, che sembra essere stato abbandonato e dimenticato di fronte alle esigenze della sicurezza».
All’incontro, moderato dall’avvocato Antonello Arru, hanno partecipato anche Antonello Spada (presidente dell’Unione Regionale degli ordini forensi della Sardegna), Aldo Luchi (presidente dell’Ordine degli avvocati di Cagliari) e Giuseppe Conti (presidente dell’Ordine degli avvocati di Sassari).
L’altro appuntamento ha visto protagonista Millar, ex attivista dell’Ira: “Mi arrestarono a 16 anni per motivi politici, fui torturato e in me si formò una rabbia antisociale. Decisi che se fossi rientrato ancora in carcere in futuro, il motivo lo avrei dato senza sconti”.
Lo scrittore ha raccontato di aver visto con i suoi occhi l’assassinio di tredici innocenti irlandesi: “Eravamo trattati come cani in casa nostra dalle forze di occupazione. Mi accorsi che di opzioni pacifiste non ce n’erano”.
Dopo diverse vicissitudini, la realtà carceraria lo portò nei famigerati blocchi H della prigione di Long Kesh: “Mi sentivo davvero in un campo di concentramento – ha dichiarato –.In inverno le celle non erano riscaldate e in estate le riscaldavano apposta per farci star male. Era una tortura. Un missionario proveniente da una missione a Calcutta, che credeva di essere abituato a vedere condizioni disumane, vomitò immediatamente non appena visitò una delle nostre celle”.
Un accenno al periodo americano: “Anche negli Usa le condizioni carcerarie sono durissime. Lì incominciai a scrivere per staccare con la realtà, per non impazzire. Quando ritornai in Irlanda, con il manoscritto, iniziai a credere di poter riuscire a diventare scrittore. Penso che il solo fatto di togliere la libertà sia la peggior punizione a cui una persona possa essere sottoposta. La società non trae alcun trae alcun vantaggio dalle condizioni insostenibili del carcerato, che anzi può maturare una rabbia controproducente per l’intera società”.