È stata accolta da un'ondata di polemiche la notizia del risarcimento di 63mila euro in favore di Bernardino Ruiu, il 78enne di Orune condannato in passato a 26 anni di carcere quale rapitore di Dino Toniutti, studente sequestrato a Macomer il 26 dicembre 1978 e rilasciato il 2 marzo dell'anno successivo dopo il pagamento di un riscatto di 300 milioni di lire.

«CELLE BUIE, TOPI E ACQUA FREDDA»

L'uomo otterrà infatti un indennizzo dal Ministero della Giustizia per le condizioni di detenzione ritenute inumane stando ai precedenti pronunciamenti della Corte europea per i diritti dell’uomo. A perorare la causa dell'ex malvivente sardo l'avvocato Pierandrea Setzu, il cui ricorso è stato ritenuto valido dal giudice del Tribunale di Cagliari, Paolo Corso.

Il Tribunale di Cagliari, in sostanza, ha riconosciuto che nelle celle che hanno ospitato la detenzione di Bernardino Ruiu non erano grandi abbastanza (lo spazio previsto è di 3 metri quadri per ciascun recluso), avevano una sola finestra con grate metalliche, insufficiente per consentire una illuminazione adeguata. Spesso, ha denunciato la difesa di Ruiu, mancava il riscaldamento e le celle erano frequentate da blatte, scarafaggi e roditori. Nel bagno, inoltre, non vi era acqua calda e ci si poteva fare la doccia all’esterno solo due volte la settimana.

LOCCI: «NOI PER MESI COL CAPPUCCIO IN TESTA»

La notiza ha suscitato la perplessità, fra gli altri, di Luca Locci, oggi imprenditore nel settore delle automobili e nel 1978 vittima dell'Anonima Sequestri. Venne rapito a Macomer ad appena 7 anni e rimase nelle mani dei banditi per 93 lunghissimi giorni. Nei giorni scorsi, in merito alla vicenda relativa a Ruiu, ha scritto: «Veramente incomprensibile, è proprio vero che il mondo gira al contrario. Gente che ha distrutto imprese e famiglie, addiritura oggi risarcita dallo Stato perché durante la detenzione lamentava lo spazio vitale insufficiente, l'acqua calda e la doccia solo qualche giorno a settimana e la presenza di topi nella cella».

«Ma è stato spiegato a chiunque abbia la responsabilità di questo risarcimento che questi personaggi tenevano i loro ostaggi come delle bestie? L'acqua né calda né fredda non si è mai vista per tutta la prigionia neanche per lavarsi le mani, i topi erano in alcuni casi gli unici compagni di vita, per tentare di far trascorrere il tempo, senza parlare degli spazi angusti, in quanto con un capuccio in testa erano difficili anche da descrivere. In un unica parola tutto questo è vergognoso».

IL SEQUESTRO LOCCI

Erano le 19:30 del 24 giugno 1978 quando a Macomer venne rapito il piccolo Luca Locci, di appena 7 anni. La famiglia Locci aveva trascorso la giornata al mare a Bosa, per poi rientrare a casa alla sera. La madre del piccolo, Paola, era appena salita a casa quando Luca, attardatosi con degli amichetti fuori da casa, venne rapito dai banditi. Una volta resasi conto dell’accaduto, la madre diede l’allarme.

Nessuno si era accorto o aveva visto nulla. L’intero paese, quella sera, era impegnato a seguire davanti alla tv la finale per il terzo e quarto posto della Coppa del Mondo in Messico fra Italia e Brasile. Il papà di Luca, Franco, concessionario della Fiat e pilota automobilistico, quel giorno era lontano da casa perché impegnato in una gara a Macerata. Quello di Luca Locci fu il secondo sequestro di un bambino in quell’anno. Ad aprile, infatti, l’undicenne Mauro Carassale, figlio di un commerciante di Olbia, fu rapito a Portisco.

93 GIORNI DI PRIGIONIA

Il piccolo Luca rimase nelle mani dei banditi per 93 giorni. Si seppe dopo che il nascondiglio era una capanna dove il bimbo veniva tenuto legato ed incappucciato. Venne rilasciato il 25 settembre del 1978 nelle campagne di Lula dopo il pagamento di un riscatto di 300 milioni di lire. Il fatto venne seguito con apprensione dall’intera opinione pubblica nazionale, che rimase col fiato sospeso assieme alla famiglia fino al giorno del rilascio.

«Ho ancora nitidi i ricordi di quei giorni – raccontò Luca Locci anni dopo in un'intervista – un’esperienza che ha segnato me e la mia famiglia per tutta la vita. Avevo sempre un cappuccio in testa che mi levavano per mangiare, però loro erano sempre dietro e mi dicevano di non girarmi, perché se li avessi visti in faccia mi dovevano ammazzare». Per il sequestro vennero condannati in secondo grado alcuni giovani barbaricini.